Italia, è ora che ti renda conto che il rock batte ancora forte dentro di te, anzi, voglio osare ancora di più, il rock non batte semplicemente, sta urlando sempre di più perché ci sono troppi muri da abbattere. Sento spesso dire in giro che non ci sono band valide, che si è persa la voglia di fare e che si stava meglio quando si stava peggio. Cavolate, le band valide ci sono eccome. Dov’è finita la fame di musica nuova? Siamo diventati forse troppo pigri per dar loro una possibilità? Qui non c’è il televoto, ma solo tanto cuore e voglia.
Oggi ho il piacere di presentarvi Theo, mr Fab e Bale, un power trio che risponde al nome di Holyphant. In attività dal 2013, gli Holyphant, non hanno perso tempo e, dopo aver registrato il loro primo demo hanno subito iniziato a mettere a ferro e fuoco parecchi palchi italiani, per poi fermarsi e registrare, nel 2014, un EP dal titolo "The Black Flames EP”. Ci sono voluti altri tre anni prima di ritrovarci finalmente qui a parlare del loro primo album, l’omonimo e ispiratissimo, “Holyphant”.
Iniziamo subito vagando nel deserto, scappando da noi stessi e dalle allucinazioni della vita, inciampando spesso e volentieri nelle rocce che, quello che può essere definito destino, ci mette sul percorso. Una fuga psichedelica che esplode nello stoner, non fa altro che farci perdere l’equilibrio. “Hallucinations” è proprio questo, un misto di ansia e speranza, con la sola consapevolezza che siamo noi gli unici fautori del nostro destino. Non c’è tempo per asciugarsi il sudore, perché, lo scenario, cambia immediatamente. Osserviamola anche noi, con un bel drink in mano, quella donna che sta per farsi trascinare tra le braccia dell’oscurità, colpevole di non sapere che qualcosa era pronto ad impossessarsi di lei e dei suoi pensieri decadenti, rendendola schiava dell’oscurità. “A New Omen” è un granitico mid tempo che in sede live non farà prigionieri, un incrocio tra i Ghost e i Black Label Society, con un assolo che farebbe felici tanti “vecchietti” della sei corde.
“Walking on this unknow road, state of mind, euphoria / We don’t mind how the journey will end / We’re not afraid of what we’ll find”. Fin dalla prima strofa capiamo subito le intenzioni della terza traccia di “Holyphant”, una “Beholders Of Time” che ci sbatte in faccia molte delle sfaccettature che compongono il mondo musicale di questi tre ragazzi, che, tra cambi di tempo, sfuriate improvvise, un mr Fab mostruoso e l’organetto alla Deep Purple, piazzato proprio quando non te lo aspettavi, ci raccontano di come tutto cambia in un attimo. Il tempo che stai vivendo tu può non essere lo stesso per la persona che ti sta affianco. Qualche riga fa si parlava di sfaccettature, e con “The Shipwreck” possiamo dire di avere un altro punto di vista sulla loro proposta musicale, perché, da questi tre, ho imparato in poco tempo ad aspettarmi di tutto. Sospesi a metà tra cielo e terra, sospinti da una mano leggera ma decisa, voliamo lontani e diventiamo spettatori della tragedia di un uomo che, superstite di una terribile battaglia, cerca di salvarsi da morte certa. Leggo paralleli e richiami alla vita di ognuno di noi in questo stoner/doom che lentamente si perde tra le acque del mare del nord.
Sono convinto che, tra Birmingham e Londra, ci potrà essere più di qualcuno a cui spunterà un bel sorriso sul volto ascoltando “Life Denied”. Geezer Butler e Adrian Smith, rispettivamente bassista dei Black Sabbath e chitarrista degli Iron Maiden, su tutti. Se il giro di basso iniziale riporta alla mente il quartetto capitanato da Ozzy e l’assolo il sestetto principe dell’heavy metal, la cavalcata centrale del brano farà felice i fan sotto al palco. Oblio, depressione, senso di vuoto e solitudine traspaiono tra le note di “The Matriarch”, uno stoner/doom deciso a far trasparire tutti quegli stati d’animo che scivolano tra le parole del testo ”…Rain is falling bright over the matriarch…”
Le dolci note dal sapore esotico del citar ci regalano la misura del vero capolavoro di questo album, e, che sia la numero sette, forse non è un caso. “Mystical Dimension” è il pezzo che ogni band rock vorrebbe scrivere, dedicando alla musica e al proprio gruppo, una canzone piena di fascino e di giusta autocelebrazione. Cosa può seguire le note di un citar se non un bel riffone pesante come un incudine di metallo? Da qui in poi ci raggiungono sonorità provenienti da pub londinesi di fine anni ’70 inizio ‘80, per intenderci, quelli da cui ha preso vita la New Wave of British Heavy Metal , unite ad una buona dose di doom, ma, tutto, è pronto ad imboccare una strada che ti porta nel cuore della psichedelia progressiva, lasciando, al sax di Alessandro Numa, di farla da padrone con un assolo che sarà difficile da dimenticare, protetto dall’ovattato tappeto di synth. Non sempre è facile descrivere le proprie emozioni, molte volte si tratta di una impresa, ma, quando si trova la chiave giusta, viene fuori la perfezione.
Con “Forgiveness” continuiamo a camminare sul percorso musicale tracciato da “Mystical Dimension” restando, scusate il gioco di parole, in quella dimensione introspettiva che può permetterci di entrare in sintonia con il bisogno e la forza necessaria per perdonare noi stessi, per poi, continuare con le nostre vite, in pace e consapevoli di poter tornare al timone della nostra nave. Abbiamo un ospite anche in “Forgiveness”, Marco Marinato, che, con il suo assolo, ha aggiunto un tocco d’emotività meraviglioso al pezzo.
“The Cellar” chiude nel migliore dei modi il primo album degli “Holyphant”, un pezzo dai cambi di tempo improvvisi, regalandoci altri momenti magicamente psichedelici, che intervallandosi al doom potente e cadenzato, ci racconta di quel luogo che, probabilmente, trova dimora in ognuno di noi, quel luogo della nostra mente dove ci rifugiamo quando vogliamo essere noi stessi, perché, al di fuori, pensiamo di non averne la possibilità.
“Holyphant” è uno dei migliori album heavy rock che ho ascoltato nel 2017 e spero davvero che la band presto si rimetta all’opera per dargli un seguito. Bravi ragazzi, davvero!
Articolo del
08/12/2017 -
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