Alle volte uno si domanda: ma quelli che parlano di pochezza della musica italiana odierna li ascoltano i dischi ? Lo sanno quanti ne escono settimanalmente ? Lo sanno che esiste un sostrato di artisti emergenti che non sfigurerebbero al cospetto di gente come Dalla, Battisti, Vasco, i Nomadi o la PFM ?
Prendete gli Olla, collettivo torinese giunto al secondo album, dopo A Serious Talk del 2015. Le otto tracce di A Day Of A Thousand Years sono altrettante perle che s'ispirano, ma non hanno nulla da invidiare, alla scena indietronica degli Anni '90, quella capitanata dai Notwist tanto per intenderci.
Tuttavia l'afflato sintetico che caratterizzava la loro prova d'esordio qui è smorzato in chiave folk e chamber-pop. Il tono dimesso ma sottilmente graffiante del cantato, non a caso, ricorda il Jeff Tweedy più acido. Ma l'architettura sonora che sottende il tutto ha un taglio rarefatto, dilatato, quasi post-rock. Certe aperture, poi, ricordano un'altra giovane band clamorosa di questi anni, i Departure Ave.
Come nel caso dell'ensemble romano, c'è un fine lavorio in fase di composizione e gli ingredienti si sprecano, tra synth, piano, hammond, chitarre, tempi dispari e voci sovrapposte. Easy listening sì, ma complesso, raffinato. Anche perchè i brani ci mettono un pò a fare bingo, ma una volta che ci hai preso confidenza non te li scolli più dal cervello e resti lì a farti cullare senza curarti del resto, e anzi restandoci male quando dopo poco più di mezz'ora realizzi che il viaggio è già finito.
I suoni caldi, avvolgenti, dreamy del quintetto piemontese sono inoltre arricchiti dal violoncello dell'ex Perturbazione Elena Diana in Gimme A Day (dentro il cui testo si ritrova il titolo del disco), nella suadente Wonderland e nella conclusiva e acustica Admitting The Mess; mentre la tromba di Ramon Moro ricama sulla coda dell'iniziale The Quicksands, ma anche sulla meravigliosa Nord Tennis e sulla "dEUS-iana" Live Visuals And Love.
A completare il quadro, Saved Again, sempre sul punto di esplodere ma di fatto permanente nel suo stato di contenutezza, e Green Curtains, che invece a dispetto dell'iniziale amplomb a un certo punto esplode per davvero in un tripudio di chitarra distorta, quasi shoegaze. Che dire. Parlare bene di una band non è mai stato così facile
Articolo del
18/05/2017 -
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