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Andrea Fardella
Le derive della RAI
2016
Controrecords
di
Claudio Prandin
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Riscontrare in un disco d’esordio tanta qualità e soprattutto tanta consapevolezza è assai arduo; Andrea Fardella è riuscito a sorprendere con questo album ricco, profondo e soprattutto maturo che (a scapito del titolo che farebbe pensare all’ennesimo sfogo italiota contro i mass media) affronta con spiccata sensibilità molteplici argomenti come la fragilità dell’amore, le vittorie e le sconfitte fino a lambire l’argomento più delicato: la morte; le undici tracce dell’album spaziano dal folk al rock tracciando traiettorie sperimentali soprattutto per quanto riguarda l’uso della voce: in Madre terra per esempio si odono interessanti vocalizzi sperimentali riconducibili a John De Leo. Le canzoni sono state scritte nell’arco di dieci anni nei quali l’autore ha vissuto diverse esperienze come musicista, artista di strada e attore di teatro; grazie a questo background è capace di osservare il mondo con occhi esperti e in grado di analizzarlo sotto svariati punti di vista.
Il cantato sobrio ma attento a qualsiasi sfumatura risulta ispirato e talentuoso sia quando si esprime col tono di un sussurro sia quando si inerpica in scale ascendenti; i testi sono uno dei punti di forza del disco perché impongono attenzione e fanno riflettere: Cosa canto a fare se non vendo la dice lunga sulla filosofia che domina la scena musicale italiana e non solo, La sorte è la fede di chi non sa in cosa credere è un fascio di luce che svela la nostra superficialità. Petit è il brano migliore: con i suoi nove minuti e il suo trascinante riff accompagna l’ascoltatore in un viaggio magico; lo splendido finale propone un gioco di voci molto epico. Vale la pena sottolineare anche l’ardita sovrapposizione di chitarre in Jet lag. Ritengo che questo bellissimo disco debba essere gustato con calma e molta attenzione, magari durante un viaggio o durante una pausa d'attesa che non rechi distrazioni.
Articolo del
22/07/2016 -
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