Quando apri il link con scritto “Esercizi di Statica” che per equivoco incontrollabile si trasforma in ‘Esercizi di Statistica’ non rimani particolarmente compiaciuto. Manovra etimologicamente intenzionale? Non saprei. Effettivo nonché compiacente è lo stupore nel sentire tutt’altro che un mix di metodi, determinismo e formule, e ciò grazie alla destrezza singolare di Mircanto, semplicemente Daniele Nava (testi/voce/chitarra), Thomas Foiadelli (cori/chitarre) e Nicola Agazzi (pianoforte/tastiere), variabile aggregativa altroché casuale. Il trio si getta nella più nobile modestia definendosi ‘scarno per vocazione’, architettante un ‘progetto vagamente cantautorale’ con tanto di ‘musica piccola’, però (quantomeno) con ‘coscienza urbana’. Che mi sia concesso il non-umile ribaltamento sintattico: qui c’è solo vocazione, cantautorato ardente, musica insigne ma minimalista con ipercoscienza della laconica condizione urbana. Ma è sulle colline bergamasche (dopo il triennale esordio “Le Finestre Sono Aperte”) a nascere il neo lavoro: apertura ad una esplorazione umana in un riparo ‘al riparo’ dal colpevole spazio del XXI siècle pervaso da plastiche passioni (per dirla à la Cure), figlie del connaturato pessimismo cosmico. Perché il tutto non è altro che un continuo, coerente, elitario esercizio di statica intellettuale, sviluppo rettilineo di credenze proprie, compiutamente metabolizzate senza pretese di ermetico ed altezzoso dogmatismo, volte a sottoporre noi, miseri spettatori, all’esercizio della riflessione più intima. C’è qualcosa di disarmonico? No. L’armonia si fa pura coesione di tonalità non inquinanti posizionate su misura con l’acustica e piano che la fanno da padroni di scena. Una scena complessa per la sua grandiosità ma essenziale nelle soluzioni di un arrangiamento povero solo in superficie: è sinfonia, semplice ma sterminata, spoglia ma piena negli attimi giusti. Non esistono caratterizzazioni rigide. Si spazia da instrumentals ‘prive di canto’ (”Cielo B” e l’avvincente atrist-track ”Mircanto”) a ferrigne ‘histoiresmétropolitaines’ (”Piovaschi” con tanto di melodramma primigenio in versione ‘autostradale’, nonché ”Poca Voce”: alienazione tutta individuale di neonati in “un Paese nuovo ma già stanco” che altro non è che un “grosso coro distratto”). Non è un vagare incoerente: sono proiezioni comico-tragiche espressive legate da una catena poetica che fa da mastice logico e continuativo dalla prima traccia all’ultima, con la creazione di una storia coerente tra sonorità sobriamente folk. La leggiadro-sventurata ”Entroterra” con la sua “folla incolonnata” non riesce a sgelare la terra, che si spacca mentre il suo piano finale ci scongela con tocchi ferrei cedendo il passo all’unta di grigio e sospirante ”Statali Stese”. La title-track è puro racconto con cambi di tempi non scontati tra motivi acustici più cari alla tradizione e una cesura tiersenianaa 3/5 della compositio. Ma il bello viene alla fine: bassi, gravità, cori psichedelici di ”Sfiori” seducono accompagnati dalla teatralità di quei ‘mostri’ di Gassman e Leray. Eppure è solo un secco epilogo ‘in una vita pendolare a perdonare’ dove ‘ogni cosa sembra vuota’ : “Dove abbiamo sbagliato, perché abbiamo esitato?”/ “Ferrati come eravamo”/ “Ci siamo spenti addosso”/Dopo lo sperma il pianto, piove per noi”/ Piove appena appena più di noi”/ “Ci fiutiamo poi ci svegliamo”/ “ Ci rifiutiamo”/. Infine ”Dicembre”: perfetta sintesi d’insieme, mese ossimorale come la condizione dell’uomo incastrato tra sporadiche consuetudini tradizionali, ipocrite, sintetiche come quei “preservativi” della società appesi ai rami del “nostro albero della fame”: sono scarti “d’amore”, senso di colpa, notti bianche/giorni neri. “Perché dobbiamo qualcosa, che cosa a qualcuno..” Dobbiamo qualcosa?” Ai Mircanto un ‘grazie’ per quest’opera.
Articolo del
07/02/2012 -
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