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Non sono bastati 24 minuti di applausi al festival di Venezia 2025 per decretare il Leone d’Oro al film della regista tunisina Kaouther Ben Hania. Peccato, perché sarebbe stato un segnale che avrebbe almeno in parte sopito le tante polemiche che hanno accompagnato il festival sulle mancate prese di posizione di artisti di grido per il genocidio in atto a Gaza. Peccato perché il massimo riconoscimento avrebbe dato una visibilità di certo più duratura ad un film necessario; dato che, come nelle competizioni sportive, nel tempo e nella memoria rimane più vivo il ricordo di chi vince, non di chi arriva secondo. Un film necessario, dicevamo; la cui storia è purtroppo una delle tante che da almeno 2 anni (in realtà una corretta contestualizzazione storica ci imporrebbe di andare molto indietro nel tempo, ma non è questo l’ambito adatto per una analisi della tragedia palestinese) si ripete quotidianamente nella striscia di Gaza. È il 29 gennaio del 2024: una macchina viene crivellata da 355 proiettili sparati dall’esercito israeliano. In quella macchina ci sono un uomo, una donna e i loro quattro figli. Muoiono tutti. Si salva solo una bambina, cugina dei ragazzi morti e nipote della coppia. Ha sei anni, e riesce a mettersi in contatto con la Mezzaluna Rossa palestinese. Utilizzando le vere registrazioni audio delle numerose telefonate con le quali gli operatori palestinesi tentano di soccorrere la bambina, il film non mostra quello che siamo abituati a vedere da 2 anni, e cioè la morte e la distruzione quotidiana di una striscia di terra che non esiste più, ma ha invece il merito di mostrare quello che non vediamo mai; una sorta di “dietro le quinte” di una tragedia. Mostra cioè, riproducendolo con estrema e rispettosa fedeltà, il contesto lavorativo della Mezzaluna Rossa, cioè di quei volontari che, pur adeguatamente formati ad operare in contesti drammatici, sono costretti a misurarsi continuamente con il dolore in diretta, a parlare con la morte che incombe, a tentare disperati salvataggi dovendo necessariamente rispettare dei protocolli di intervento che quasi sempre portano al fallimento delle operazioni. Perché, sebbene l’ambulanza che potrebbe portare in salvo Hind si trovi a soli otto minuti dalla macchina nella quale è intrappolata la bambina, devono ottenere varie autorizzazioni prima di dare il via libera all’ambulanza. È in quelle ore di attesa, cariche di tutta la paura, di tutta la speranza, di tutta la tensione e di tutto il senso di impotenza, che si sprigiona la grandezza del film. E lo fa grazie ad un pathos espressivo degli attori che sono straordinari, esageratamente credibili e partecipi del dramma che si sta consumando. Aiutati peraltro da una macchina da presa sempre attenta a cogliere con i giusti primi piani la corretta espressione dell’angoscia che si sta consumando in quel centro operativo di soccorso. Insomma un film potente, dove non c’è retorica e non c’è la spettacolarizzazione del dolore; c’è solo il dolore, quello vero. Che poi deflagra con le scene finali (scene vere), quando viene intervistata la madre di Hind che riporta poche, semplici parole in ricordo di sua figlia: “mi diceva sempre: mamma, voglio che la guerra finisca perché voglio andare in spiaggia a giocare con la sabbia!” Come si fa a restare indifferenti di fronte a quella purezza, di fronte ad un sogno tanto semplice ed infantile, sapendo che anche quel sogno sarà per tutti quei bambini irrealizzabile? Come si fa a restare indifferenti di fronte ad una bambina che, ferita in una macchina, con accanto i cadaveri di quattro cuginetti, e circondata da carri armati che sparano, dice ad un certo punto al suo interlocutore della Mezzaluna: “Vienimi a salvare, perché tra poco sarà buio. Ed io ho paura del buio!” Ecco, il merito di questo film è soprattutto quello di scavare con delicatezza sotto quelle macerie che hanno sepolto sogni, paure, umanità. E di costringerci a guardarle negli occhi, ad ascoltare dal vivo le voci del dolore. Questo film ci costringe ad ascoltare la voce di un popolo che sta gridando aiuto da anni. E ci costringe a guardarci dentro, nel profondo delle nostre coscienze. Noi, che ascoltiamo tutti i giorni quelle voci, e che non siamo stati in grado di dare conforto e di mantenere vivi i sogni di quei bambini, né di aiutare concretamente un intero popolo che viene sterminato sotto i nostri occhi!
Articolo del
22/09/2025 -
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