Questo è uno dei tanti miei articoli (praticamente tutti) che cominciano abbattendo la famosa quarta parete o, se meglio preferite, prendendo una rincorsa bella lunga. Ormai mi conoscete, i miei sono pezzi lenti, che seguono i miei tempi scenici e la mia ritmica. Insomma, se avete particolare fretta nel leggere, siete cascati male anche questa volta.
Oggi, visto che la mia narrazione parte, come al solito, da me, comincio parlando di uno di quelli che, molto melensamente, potrei definire “posti del cuore”. Per una serie di coincidenze (o forse no) è un posto strettamente legato alle parole, è una tipografia.
Come qualcuno di voi forse ricorderà, il mio paese è Campofiorito, e dista mezz’ora da Corleone, l’epicentro di questo racconto. La Tipografia Cortimiglia sta esattamente a Corleone, ed è uno di quei posti che frequento praticamente da sempre, con una ciclica frequenza.
E’ un posto che mi ha sempre fatto simpatia e mi ha sempre attratto, e non intendo la tipografia in generale, no. Intendo esattamente quella lì, quella di Nando e di tutta la splendida gente che la anima.
Ma andiamo per gradi, spiego un po’ meglio.
Dicevo che è un posto che ho frequentato da sempre, fino a qualche anno fa da semplice “spettatore” di mio padre, da qualche tempo anche come parte attiva. La tipografia ha visto nascere tutti i miei spettacoli, in ogni cambiamento di copione, ci ha dato una mano quando, con un gruppo di geniali scapestrati già tutti di quinto anno, mettemmo su un giornalino d’istituto, “Sveglia!” si chiamava, che ci costò quasi una querela, è parte attiva nella progettazione delle varie locandine.
Però, in un posto del genere, non ci vai mai solamente per sbrigare le tue faccende: si finisce sempre per parlare del più e del meno.
Quando mi capita di andare ed, andando, trovo di servizio il grande Simonpietro gli argomenti sono due, uno- il fantacalcio- esaurito per primo, l’altro, che è decisamente più corposo, corrisponde al motivo per cui scrivo, ed è- evidentemente- la musica: ogni volta è una cavalcata lunghissima, a seconda dei nostri ascolti del periodo, dal quartetto Manfredi- Finardi- Camerini- Rocchi e rispettivi album del ’77 alla comune passione per Cccp, Csi e Pgr, fino alle ultime uscite della scena indipendente.
Simonpietro è uno dei miei tanti “formatori” musicali, e negli ultimi anni ci lega un continuo scambio musicale. A lui devo buona parte della mia conoscenza musicale del combat folk e della musica “di lotta” nostrani: se conosco i vari YoYo Mundi, Mau Mau, Luf, Casa del Vento e compagni (letteralmente, vivaiddio) lo devo a lui.
Giusto per fare un esempio: concerto dei Modena City Ramblers ai Candelai a Palermo, sarà stato marzo di un paio di anni fa. A fine serata andiamo a salutare i Modena, che lui già conosceva di persona, poi tira fuori un disco, era il primo album dei Mocogno Rovers, e lo fa vedere a Dudù Morandi. Dudù strabuzzò gli occhi e poi, assolutamente incredulo, ci disse che quel disco non ce lo aveva neanche lui.
Simonpietro fu anche quello che stava per portare i mitici fratelli Severini, per gli amici i Gang, e la Bandabardò in concerto a Corleone, in tempo in cui la comunicazione e l’interazione fra pubblico ed artisti non era esattamente come quella odierna.
Credo che abbiate compreso il personaggio.
Mi piace stare a sentire Simonpietro che racconta del suo girare per concerti perché è come fare un salto indietro di una ventina d’anni, che è uno scarto temporale abbastanza breve, ma dal quale sembrano passate intere ere geologiche. Anche nella fruizione della musica: di quello che riguarda il combat folk (ed anche qualcosa di hip hop) dalla metà dei ’90 fino alla metà dei ’00 Simonpietro è un cultore perché, come gli appassionati veri, non ha fatto altro che ricercare, attuando un approccio assolutamente orizzontale: c’è un disco che mi è piaciuto? Vedo chi ci ha suonato, mi informo, compro altri dischi nei quali ha suonato.
Non è solo curiosità, c’è di più: è costante voglia di scoperta, di mettersi in gioco, di misurarsi con ascolti vari e diversi, cosa che manca per prima a qualche artista in primis, purtroppo sempre troppo spesso.
In questo approccio così genuino alla musica sta una delle tante chiavi di lettura del mio lavoro: la ricerca della musica “vera”, e con “vera” non intendo solo un dato strettamente tecnico.
La musica vera è quella che nasce, per certi versi, già fragile perché è perfetto specchio dei suoi autori, perché non cerca di prendersi in giro, ha qualcosa da dire e lo dice nell’unico modo che ha per farlo.
Colorandosi di tutti i colori di cui dispone.
Però, siccome non siamo qui a menare il can per l’aia, io l’esempio di musica vera ve lo faccio.
Ed è di quelli importanti.
Sto parlando de Lastanzadigreta, quintetto piemontese composto da Leonardo Laviano, Alan Brunetta, Umberto Poli, Flavio Rubatto e Jacopo Tomatis, e del suo nuovo lavoro.
“Macchine inutili”, questo il titolo, arriva a quattro anni di distanza da quel “Creature selvagge” che valse al collettivo torinese la Targa Tenco come miglior opera prima nel 2017.
Disco, questo qui, che procede nel solco della “musica bambina”tracciato già col sopracitato esordio, e che è un lavoro strettamente politico, a partire dal rimando alle macchine inutili di Munari, ma avremo tempo di definire meglio il concetto.
Intanto partiamo.
Disco che si apre con “Attenzione, attenzione”, brano che poggia su un pattern ritmico di elettronica e su un arpeggio di sequencer a scandire la parte melodica, con una sezione d’archi e fiati a colorare il ritornello. La struttura e la dinamica del pezzo sono geniali: ad una strofa più serrata, cantata in modo abbastanza quadrato, quasi un elenco di cose, si alterna il ritornello, che del brano costituisce la parte più aperta, anche in termini concettuali: “Perché è complesso il cuore, è buio e pieno di creature. C’è il vecchio mondo che non muore e quello nuovo che tarda ad arrivare”. La chicca finale è il solo di e- bow, contornato da un crescendo strumentale dettato dagli archi.
“Pesce comune” è una elegantissima dimostrazione di pop sinfonico che si incastra perfettamente con il racconto di uno scenario che più che distopico è terribilmente plausibile: una “verità frantumata”, pericolosa come la “plastica mangiata” per i pesci, sullo sfondo “tra i fossili dell’era digitale nuotano creature della terrà che sarà”. A trainare tutto ci sono un synth ed una chitarra acustica, mentre i contrappunti di un glockenspiel e della sezione di archi colorano ulteriormente il brano.
“Canzone d’amore e di contributi” è, come cantava Amodei ne “Il ratto della chitarra”, una perfetta canzone d’amore ma “senza far sottintesi”, una “storia d’amore e di pane più forte degli interinali e del vuoto occupazionale”.Il pattern di una drum machine scandisce la ritmica del pezzo, sottolineata da una ulteriore sezione di percussioni artigianali. Saltano all’orecchio anche un banjolino ed una cigar box, mentre il finale è affidato alla voce di Gigi Giancursi, già Perturbazione, in un’atmosfera caratterizzata da una duplice cornice “ambientale”: un testo che gioca sulla poeticità dell’intimità e della normalità, su uno sfondo a tratti confuso o, quantomeno, caotico.
L’album continua con “Fiori”, pezzo sorretto dagli arpeggi di un dobro e di un ukulele, che si intrecciano alla perfezione, inseguendosi e raggiungendosi. La sezione di archi e fiati apre il pezzo sul ritornello, mentre il solito tappeto di percussioni esuberanti scandisce la ritmica del pezzo. “Delle cose che non hai non ti libererai. Poi ti agiti inutilmente per impegnar la mente. Metti in ordine, crei lo spazio per invenzioni nuove e smaltisci le risposte buttate chissà dove. ”
Adesso torniamo alle nostre “macchine inutili” ed al suo significato. Di “Macchine inutili” parlava Bruno Munari, e la definizione che ne dava mi sembra fondamentale ed illuminante: “inutili perché non fabbricano, non eliminano manodopera, non fanno economizzare tempo e denaro, non producono niente di commerciabile. Oggetti da guardare come si guarda un complesso mobile di nubi dopo essere stati sette ore nell’interno di un’officina di macchine utili.” In un mondo governato dalla produttività rimettere al centro concetti del genere è necessità assoluta. Ed, allo stesso modo, in un mondo governato dal grigiore dell’uguaglianza risulta vitale rimettere al centro la fantasia, ”l’arte di inventare storie” di Rodari. Proprio a Rodari è dedicata la quinta traccia dell’album, guarda caso, “Grammatica della fantasia”. Se fantasia deve essere, che lo sia al 100%: nel pezzo trovano posto una serie di strumenti magnificamente originali quali kalimba, rana, marimba, piano giocattolo. Che dire? Si fa così, esattamente così. Con tanta fantasia.
“Creature selvagge, pt.2” è la prosecuzione di “Creature selvagge”, title- track del già citato album d’esordio dei nostri amici. Ritroviamo la ragazzina protagonista del pezzo è cresciuta, vive in un mondo post apocalittico. Il pezzo si snoda lungo un delicato arpeggio di chitarra, colorato da una marimba e da un fotonico theremin impazzito in sottofondo. I fraseggi di chitarra elettrica ed un’ arpa, dono di Cecilia, che presta anche la voce al brano, lo fanno decollare verso altissime vette di eleganza. “E sono ancora io uccisa dal mare e salvata da dio con questi calli unico segno che mi fanno ricordare ancora chi è il viso giovane vecchio che guardo nello specchio. ”
Settima traccia è “Cavallini”, pezzo che a provare ad inquadrarlo in un genere faremmo notte (ed io sto già dando, per cui…). Ma tanto qua dei generi ce ne sbattiamo allegramente e va benissimo così. Il primo impatto col brano è dato dal suono profondo e tremante del didjeridoo, marchio di fabbrica del collettivo torinese. Un ritornello largo ed aperto, senza parole, è scandito dalla linea melodica di una melodica, in un pezzo che è “un intreccio inaspettato di destini”, una enorme matrioska di storie le une dentro le altre.
“Greta e la nuvola” ha dietro un concetto straordinario, cito dal presskit che ci è stato girato: “per regola interna non viene mai provata ed è sempre improvvisata ogni volta con un arrangiamento nuovo, suonando quello che è disponibile in quel momento”. Per me questo è il senso più profondo del fare musica: essere liberi e divertirsi. In questo caso i calici accarezzati, percossi e- spero non consequenzialmente- rotti più del vario pentolame costituiscono un tappeto ritmico di tutto rispetto, su un pezzo sorretto da una chitarra classica che arpeggia.
Un valzer sghembo accompagna “Millantatore”, elogio di una simpatica canaglia, una sorta di Tartarino di Tarascona, uno di quelli che intanto raccontano, poi che spesso raccontino panzane è un dato secondario: è la loro capacità di saper cavalcare la fantasia che li rende anche simpatici.
“Millantatore la gente ha bisogno di temillantatore per credere ancora alle grandi storie d’amore. Millantatore questo realismo strizzato attraverso il buco del cuore per credere ancora alle grandi storie d’amore”
“Tarzan (quello vero)” è dedicata a Dario Scaglione, nome di battaglia Tarzan, per l’appunto, partigiano fucilato a Valdivilla nel ’45, di cui scrisse anche Fenoglio, suo compagno di brigata. Il pezzo è sostenuto da un tappeto di elettronica, con i contrappunti di melodica sui ritornelli ed un crescendo strumentale. “Dove hanno nascosto tutto il nostro amore? Poteva bastare per stare un poco meglio fino alla fine del mondo. ”
La title track è una suite composta da due brani, un racconto dell’amore che si scambiano non viste dall’uomo.
La prima parte della suite si presenta come un pezzo che rasenta la musica da camera, con una marimba che si intreccia alle sezioni di archi e fiati, in un incontro elegante e prezioso. “Guardo le macchine come guardo le nuvole, che sono macchine inutili in cielo. E se otto ore vi sembrano poche provate anche voi a non lavorare. ”
La seconda parte ha invece un piglio musicale abbastanza diverso, con elementi più elettronici, synth e sequencer, e con l’unico punto comune dato dalla presenza della marimba, mentre la parte vocale è, a differenza degli altri brani, ad incastro. “Le macchine inutili stanno a guardare con tutto il lavoro che c’è. Io resto qui con te. Non è così che si fa, il cuore è una leva col fulcro a metà. ”
Chiude il disco “SPID”, pezzo scritto in testo e musica da Gigi Giancursi, è quasi un capolavoro di metasemantica, che racconta in modo molto ironico, della infinità di gineprai da attraversare in mezzo a quella selva oscura della burocrazia, “macchina inutile come poche ve ne sono” fanno notare giustamente Alan, Leonardo, Umberto, Flavio e Jacopo. Ne viene fuori un divertente pezzo sorretto da un banjolino, con i contrappunti di vibraphonette e melodica a colorarlo, ed un ritornello che diventa quasi un mantra. “Il codice NACE che dicesi ATECO l’idioma è l’azteco, ma è IMAIE o SIAE? ”
Di solito le parole rischiano di mancarmi all’inizio, stavolta mi mancano alla fine, anche perché in verità credo di aver già detto molto.
Però dischi del genere sono, già solo per l’approccio che c’è dietro, opere di resistenza artistica, ed anche per questo valgono oro. Sono lavori schierati, con dentro quel profumo di buono che ti fa capire da subito che sei in buone mani, e con una narrazione densa di curiosità intelligente e sempre viva. Sono il cuore della musica, la sua essenza più profonda e più genuina.
Come i racconti di Simonpietro.
Articolo del
05/02/2021 -
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