Forse l'estate del 2019 non sarà ricordata come l'estate di Springsteen, eppure in qualche modo per lui e per i suoi fan sarà un momento da tenere bene a mente. Dopo il tour del 2016 con il quale andava a ricordare e a suonare integralmente dal vivo (almeno nella parte americana del giro) il suo disco The river del 1980, e dopo aver preso la residenza in un piccolo teatro di Broadway per oltre un anno mettendo in scena la sua vita, i suoi demoni interiori, nel tentativo forse di esorcizzarli in uno spettacolo molto emozionante e bello, Bruce Springsteen è tornato qualche settimana fa con un nuovo disco che per molti versi ha sorpreso tutti ed ha finito con dividere i giudizi dei suoi fan.
Western Stars, questo il titolo, è un lavoro unico nella discografia di Springsteen non solo per l'approccio fortemente orchestrale di quasi tutti i brani, ma anche per lo spirito che ci si respira dentro. È lo stesso artista tormentato di Broadway a mettere questa volta su disco i racconti di vita, i pensieri, le confessioni oseremmo dire, di (non) eroi perduti, che si specchiano come al crepuscolo di una loro esistenza rinnegata, sbagliata, piena di errori, ma mai dimenticata, imprigionati in una nuova strada in cui fermarsi a pensare troppo, può essere fatale.
Tutti i personaggi di Western Starsb-movie, amanti abbandonati, o che hanno tradito, operai che hanno dovuto o voluto cambiare città, cambiare esistenza. La malinconia del presente sembra aggiungersi al rimpianto del passato. Era quasi inevitabile questi racconti cercassero riscatto in un arrangiamento orchestrale, come se di per sé non potessero leggere alla loro stessa miseria. E allora Springsteen immortala questi antieroi giunti a un capolinea, disegnandogli intorno una scenografia nella quale possano muoversi da protagonisti, forse per un ultimo rigurgito di vita. Il risultato è sorprendente e anche spiazzante per chi conosce i paesaggi sonori che hanno reso celebre il rocker del New Jersey, ma è una grande lezione di musica e arrangiamento.
Se “Hitch Hikin’ “che apre il disco si muove sulla sequenza di due accordi ripetuti sulla quale lentamente gli strumenti d’orchestra si aggiungono a movimentare il nostro autostoppista che si appresta a conoscere i volti e i racconti che popoleranno il disco, con “The Wayfarer” la progressione, il cantato inusuale nella linea melodica, e l’intervento magistrale degli archi, segnano il primo passo di quello che sarà una sorta di dialogo che andrà avanti per tutto Western Stars, tra il canone springsteeniano e i riferimenti ai quali lo stesso Bruce ha fatto cenno recentemente, da Glenn Campbell a Jimmy Webb, passando inevitabilmente per Roy Orbison e, perché no? anche per Bacharach, non per forza al servizio di Costello: il modo in cui si muovono gli archi su questo brano ci dice che siamo di fronte a un unicum nella sua discografia. Altri episodi come “Tucson Train” stanno su un registro più classico dell’autore, sia nello stile che nella resa con un riff di poche note ripetute su due o tre accordi (che ricorda certe cose di The Rising, ma anche altre più vecchie, come “Something in the night” ad esempio), ma la malinconia struggente di “Chasing wild horses”, la disperazione latente di Western Stars che tra l’altro non nasconde una venatura erotica, tracciano un segno ai confini del cerchio.
Springsteen ogni tanto veste i panni di Roy Orbison e canta a voce piena, in un modo che raramente si è sentito nella sua carriera: lo fa in “Sundown”, così come in “There goes my miracle”, forse gli episodi meno riusciti di tutto il disco. La quasi citazione di Everybody’s Talking in “Hello Sunshine” è invece pregevole in un brano che è una chicca magistrale, misurata nei toni me efficacissima nello spirito. “Somewhere north in Nashville” è un gioiellino che probabilmente passerà inosservato ma è davvero notevole nella sua apparente semplicità, mentre l’effetto quasi mariachi di “Sleepy Joe’s Cafe”, riesce nell’intento di stemperare la malinconia del racconto.
Tutto sembra funzionale allo sguardo complessivo su questi anti-eroi, costretti a fare i conti con i propri demoni, i propri fallimenti, rimorsi e rimpianti. La speranza c’è ma è un barlume lontano quasi invisibile.
Il crepuscolo è come una dannazione voluta, come se l’alternativa ci fosse ma non fosse contemplata da chi si porta appresso i sensi di colpa e li vede in ogni angolo. Non a caso il finale è “Moonlight Motel” carico di segni, di simboli di ricordi: il protagonista li insegue sul filo della memoria e del tempo che ormai è andato, sapendo benissimo che non potrà mai rimettere a posto i cocci, e in un finale cinematografico magistrale versa un goccio di whisky nel suo bicchiere, ma anche in quello del suo amore che non c’è più. Se Western Stars è il tramonto per le anime che lo popolano, l’estate 2019 ci dice che il crepuscolo di Springsteen è ancora molto lontano
Articolo del
07/08/2019 -
©2002 - 2024 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|