Se non fosse – come invece è – una storia vera fin nel più insensato e minuto particolare, sarebbe l’epopea tragicomica del decennio. Un “burocrazincubo” diabolicamente calibrato fra Kafka, l’insolubilità di Pirandello e l’inettitudine sveviana. Si, perché nel libro di Luigi Furini “Volevo solo vendere la pizza” prorompe quel sarcasmo disarmante tipico dell’uomo post-moderno al confronto con la panoptica società che ne indirizza – il più delle volte ridondantemente ed inutilmente – movimenti, impegni, doveri. Salvo poi lasciarlo in balìa di selvaggi meccanismi formal-burocratici che inguaiano proprio chi abbia voluto seguire tutte le regole una per una, perfino la più idiota. E perfino per aprire una micro-pizzeria di poche decine di metri quadrati.
Il fatto è che, pur non essendo un’opera di fiction ma una via di mezzo fra un diario personale romanzato, una cronaca di costume impastata a rari riferimenti sociologici e, in fin dei conti, una sconfortata stenografia di due anni da panico, il libro funziona esattamente come fosse una comédie (dis)humaine. Piazzando al centro della vicenda – incredibilmente strutturata, nel suo accadere, per assurdi e montanti capitoli, uno più spiazzante dell’altro – il personaggio Luigi e Interfood, la sua Srl fondata per gestire la pizzeria "Tango" di Pavia, le pagine scorrono scioltissime sotto la prosa gentile – e, viste le vicissitudini, nemmeno troppo colorita – del giornalista Furini, stoico portabandiera di un civismo che non ha alcun margine di successo. Non tanto nella società dei furbi, ma in quella dei cavalli incappucciati.
La storia si regge sulla cronaca precisa precisa degli ultimi due anni dell’uomo-personaggio. La sua decisione di investire un gruzzolo consistente per aprire un’attività collaterale al proprio lavoro. Il successo immediato che la pizzeria "Tango" riscuote ogni giorno. Accompagnato, però, da un altrettanto quotidiano incubo che, ogni volta e sin da prima dell’apertura, si manifesta passo dopo passo nelle più inusitate incombenze, nei più inconcepibili obblighi. Dai numerosissimi – e svogliatamente frequentati oltre che assiologici, quindi inutili – corsi antincendio, primo soccorso, haccp e via elencando, mere riserve di obbligatorietà che consentono la proliferazione di pseudo-esperti che sugli obblighi ci campano. Fino alle astrusità della Camera di Commercio, dei controlli fiscali, delle autorizzazioni ASL. Badate bene: Furini non è il solito lagnoso che non ha voglia di consegnare qualche certificato. E' piuttosto un supereroe della correttezza e dello stacanovismo: affronta tutte le incombenze con l’approccio civico e volenteroso di chi vuole ottenere regolarmente e nel rispetto delle norme permessi, certificati ed autorizzazioni. Si impegna, si prepara. Ma ogni volta salta fuori un nuovo, inaspettato poiché ingiustificato ostacolo – dietro al quale c’è solo ed unicamente il soldo, il danaro. Perizie prestampate pagate mille euro, quintali di carte da bollo, infiniti scambi epistolari basati sul nulla. Tutto ciò, prima che "Tango" possa battere il primo euro di pizza.
E dopo, dalle incombenze amministrative l’incubo giornaliero trasloca pian piano verso quello della gestione del personale e verso le assurde metodologie dei patronati e dei sindacati. Ormai ridotti a smazzacarte che operano dozzinalmente ed automaticamente, senza nemmeno appurare se sia possibile che la pizzaiola in aspettativa per “gravidanza a rischio” possa fare ricorso per ingiusto licenziamento anche se nel frattempo, continuando a percepire lo stipendio, ha aperto proprio dirimpetto alla pizzeria del principale un’altra pizzeria in cui sforna giorno dopo giorno, con tanto di pancione “a rischio”, chili e chili di pizza. Follie. Ed è questo il dato essenziale che esce fuori dal questo svenevole puzzle per forti d’animo, laddove Furini incrocia la sua cronaca degli ultimi anni alla sua vita e formazione. Sessantottino di ferro, comunista d’acciaio, da sempre legato ai valori della sinistra e dello stesso sindacato, si trova totalmente sparato fuori dal pianeta terra quando viene ripetutamente convocato a discutere le molteplici vertenze che, mese dopo mese, gli vengono mosse da alcuni suoi dipendenti – tutti giustamente licenziati. Lui, che da sempre si batte per i diritti dei lavoratori, è il cattivo. Perché è il padrone: punto e basta. Dal marocchino assenteista alla pizzaiola in gravidanza. Dal vecchio pizzaiolo ligure tirchio e meschino a sei mesi di malattia per una semplice frattura del metacarpo. Ed è qui che Furini vacilla, incassa male, finisce quasi in esaurimento: la Asl, i corsi e le carte da bollo non c’erano riusciti, a sconfortarlo. Piuttosto, l’avevano fatto incazzare. Ci riescono, a fargli mollare tutto, il sindacato, l’Inps e l’Inail: macchine infernali che girano a vuoto, dove vince chi conosce i trucchi del motore, e non chi voglia diligentemente lasciarsi trasportare nella legalità.
Male al fegato. Ecco quel che resta dalle pagine tragicomiche – direi però, più che comiche, umoristiche nel senso più oscuro del termine, quello che lascia l’amaro in bocca – di questo urlo affaticato al rispetto delle regole, alla trasparenza, alla totale mancanza di obbiettività di un mercato del lavoro ridotto a giungla (e specchio) del nostro tempo squallido e superficiale.
Cinque posti di lavoro in meno, il conto corrente alleggerito di 100mila euro, "Tango" miseramente ceduto ai cinesi e una politica totalmente latitante sul versante dello snellimento burocratico. Che lascia alle sue più assortite Agenzie le incombenze particolari, specifiche e quindi più invasive per l’uomo comune che voglia tentare quella che, altrove, non dovrebbe essere considerata un’avventura. Ma solo la legittima aspirazione ad un’impresa personale.
(Molto più sinteticamente, questa recensione si sarebbe potuta scrivere in una riga: “L’Italia è all’82° posto fra le nazioni in cui è più facile aprire un’impresa. Una collocazione drammatica. La storia di Luigi Furini ce ne spiega il perché”).
(Popimmersion)
Articolo del
23/05/2007 -
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