“Ieri all’Harvard Square ho visto il passato del rock’n’roll balenarmi davanti agli occhi. E ho visto anche qualcos’altro: ho visto il futuro del rock’n’roll e il suo nome è Bruce Springsteen. E in una serata in cui avevo bisogno di sentirmi giovane, mi ha fatto sentire come se stessi ascoltando musica per la prima volta…”.
Il giovane e rispettato critico musicale dalla cui macchina da scrivere è uscita questa frase è Jon Landau. La sera del 9 maggio del ’74, Jon, è nel Massachusetts per ascoltarsi il concerto della cantante country-blues Bonnie Raitt all’Harvard Square Theater; non è lì per lavoro ma bensì per festeggiare spensieratamente il suo ventisettesimo compleanno. Aveva già apprezzato Springsteen in qualche piccolo palco a giro per la East-Coast, ma mai l’aveva visto nelle vesti di chi doveva scaldare una platea accorsa per un altro artista.
Spende 4$ per assistere al concerto con inizio alle ore 19 (7:00 PM, per gli anglosassoni) proprio con Bruce Springsteen e la sua novella E Street Band. Novella si, perché è la prima volta che il Boss presenta la sua band con quel nome dal vivo.
C’è comunque da dire che Bruce Springsteen quella sera non era comunque un’artista di primissimo pelo dato che aveva già pubblicato due album come “Greetings from Asbury Park, N.J. ” nel gennaio del ’73 e “The Wild, The Innocent & the E Street Shuffle” a novembre dello stesso anno. Proprio questi due album infatti alimenteranno il suo show diviso in due parti, il primo da un’ora ed il secondo da circa un’ora e mezzo. “Springsteen fa tutto” prosegue l’articolo che un adrenalinico Landau scrive a notte fonda. È pronto a giocarsi carriera e credibilità con “Rolling Stone” e “Real Paper”, le riviste per cui lavora: Bruce Springsteen è un uragano. Nel concerto di quel 9 maggio alterna versioni inedite dei suoi brani, come la intro di “The E Street Shuffle” della seconda parte di show, a cover di vecchie canzoni Soul come “I Sold My Heart to the Junkman” dei Basin Street Boy. Energia pura: quella sera Springsteen ha l’intero pubblico ai suoi piedi, togliendo nettamente la scena alla ignara Raitt che doveva essere l’artista principale della serata delle 22 (o 10:00 PM, se preferite).
Nella performance c’è spazio anche per altri autentici capolavori come “New York City Serenade” (brano tanto caro al pubblico italiano), “Spirit in the Night” e “Rosalita (Come Out Tonight)” ma c’è spazio anche per LA canzone. Il brano che lo stesso Landau descrive come “the song with the ‘Telstar’ guitar opening” visto che si trattava di un inedito: in anticipo di qualche mese, Springsteen, esegue la celeberrima “Born to Run”, brano che di fatto anticiperà l’uscita dell’omonimo album l’anno successivo.
La serata è dunque un successo clamoroso. “Non c’è altro artista che preferirei vedere su un palco oggi”, continua Landau. Springsteen ha conquistato il Massachusetts, per adesso. In pochi giorni l’articolo di Landau nella formula di “ho visto il futuro del rock’n’roll e il suo nome è Bruce Springsteen” fa il giro delle riviste e delle radio, la frase che inevitabilmente passerà alla storia del giornalismo musicale, e del rock in senso lato, segna un crocevia per le carriere sia del giovane Landau ma anche di Bruce Springsteen che viene sottoposto a enorme pressione dai dirigenti della CBS Records che vogliono in tutti i modi pubblicare un album degno delle sue performance live. E dunque eccolo. Il 25 agosto del ’75 Bruce Springsteen, accompagnato dalla sua immancabile E Street Band, pubblica un album da “Top 20” nella classifica degli album migliori della storia della musica e da 6 milioni di copie solo negli States.
“Born to Run” è il biglietto da visita di quel ragazzo partito da Long Branch per conquistare il mondo della musica. Un album comunicativo, con energia sconfinata dove serve (il ritornello di Born to run è adrenalina allo stato puro) alternati a momenti più intimi e poetici. “Thunder Road”, “She’s the One”, “Jungleland”…impossibile scegliere solo un brano di questo album, la sua incredibile bellezza sta proprio nell’insieme dei brani che lo compongono. Quasi come fosse un “concept”. Certo anni più tardi farà il botto nei negozi di dischi con “Born in the USA”, ma “Born to Run” è il primo autentico capolavoro compositivo di un artista davvero infinito. Un passaggio fondamentale che segnerà anche, come detto, la carriera di Landau che diventerà anche co-produttore di quello e degli album a venire di Springsteen (fino a “Lucky Town” del 1992).
Lui, che aveva scommesso la sua giovane carriera giornalistica su quell’inedito brano ascoltato nel teatro dell’università di Harvard qualche mese prima. “Born to Run” è solo il primo tassello di una discografia ricca di capolavori ma anche di esperimenti, più o meno riusciti. È incredibile però come, anche al giorno d’oggi, le parole di Landau siano più che mai attuali: il Boss ha da poco compiuto la bellezza di 71 anni e quella sera a fare da apertura a Bonnie Raitt ne aveva solo 25; tanti anni sono passati ma ancora non sembra abbia voglia di gettare l’ancora. Non so che periodo intendesse in buon Landau quando disse “futuro”, forse neanche lui si immaginava che sarebbe arrivato così lontano ma se ad oggi non si può più parlare di “futuro del rock’n’roll”, almeno godiamoci il presente.
E pensare che due cose erano impopolari in casa Springsteen quando Bruce era poco più che adolescente: una era lui, l’altra era la sua chitarra.
Articolo del
09/10/2020 -
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