Il 1969 è stato un anno molto particolare per la musica: l’addio ai live dei Beatles dal tetto della Apple Records, il primo album dei Led Zeppelin, la tragedia del concerto dei The Rolling Stones all’Altamont Raceway Park. Ma il 1969 è anche l’anno di Woodstock.
Talmente famoso e passato alla storia che il nome Woodstock, nell’immaginario collettivo, rievoca un evento più che un luogo. È stato il momento fatto musica del movimento giovanile forse più importante della storia: gli hippy, e non me ne vogliano i novelli seguaci del #FridaysForFuture, siamo su due universi distinti. La “contro cultura” fu molto popolare nell’America degli anni 60 anche se da quei giorni in avanti sarebbe andata piano piano a scemare, e con essa anche il sogno di un mondo “Peace&Love” professato, tra gli altri, anche dai 500.000 giovani presenti in quei leggendari 4 giorni.
La storia del concerto di Woodstock inizia qualche mese prima, precisamente a febbraio dello stesso anno quando due giovani, Michael Lang e Artie Kornfeld, insieme a due investitori, John Roberts e Joel Rosenman, iniziano a pensare ad un evento musicale di dimensioni faraoniche. Lang (mente principe del concerto) aveva addirittura previsto un evento ancora più grande di quello che realmente è stato, tanto da aver pensato anche ad uno studio di registrazione da installare nella zona che il concerto avrebbe dovuto lanciare.
Con gli accordi siglati tra i quattro, si forma la società Woodstock Ventures, società che avrebbe avuto l’onore e onere di organizzare tutto quanto un concerto di quella portata prevede: spazi, sicurezza, artisti, provvigioni…
Più che l’idea prendeva forma e più che il concerto si allontanava geograficamente da Woodstock, nello stato di New York, mantenendone comunque il nome: un evento di quelle dimensioni era impensabile in una cittadina del genere. È effettivamente un errore comune pensare che il famoso concerto di Woodstock si sia tenuto proprio a Woodstock, quando realmente non è proprio così.
L’evento si sposta quindi nella tenuta di un certo Max Yasgur, un contadino che aveva la sua fattoria nei pressi di Bethel nella contea di Sullivan, New York, a circa 90 km dal luogo dove inizialmente era previsto il Festival. Già dalle prime battute organizzative, si era capito che il concerto sarebbe stato di difficile gestione: per il festival che si sarebbe dovuto svolgere inizialmente dal 15 al 17 agosto erano stati messi in vendita i biglietti a 18$ per tutto il festival e a 6$ per ogni concerto. La Woodstock Ventures si aspettava non più di 100.000 persone complessive, ma già diversi giorni prima c’erano oltre 50.000 giovani a ridosso del prato che avrebbe ospitato l’evento e, non potendo garantire un controllo sugli accessi degno di questo nome, il concerto divenne “evento gratuito”. Va da sé che nei giorni seguenti arrivarono folle oceaniche di ragazzi da tutta l’America: il fulcro del movimento hippy degli anni 60 è qui, radunato nella tenuta del Sig. Yasgur.
Giovani e giovanissimi da tutti gli Stati Uniti vengono ad aiutare gli organizzatori con i preparativi e controlli di vario genere ma, come detto, nessuno era in grado di garantire sicurezza o controllo sugli accessi: le linee guida che venivano date agli addetti della pseudo - sicurezza erano di essere gentili con tutti ed aiutare chi era in difficoltà e, nella maniera più assoluta, di non creare tensioni.
Fin da una settimana prima dell’evento fu fondamentale l’aiuto agli organizzatori della “Hog Farm”, una comunità hippy di riferimento dell’epoca, i quali diedero un notevole apporto sulla preparazione e gestione dell’area del concerto. Organizzarono l’area per il campeggio, ripulirono il prato prima del montaggio del palco, acquistarono inoltre quantità folli di riso integrale da distribuire ai ragazzi per rifocillarli e furono di immenso aiuto ai giovani che ebbero problemi con la droga durante il festival.
Alla vigilia dell’inizio dell’evento che indelebilmente ha segnato la storia della musica, si verificarono numerosi problemi logistici: le principali vie di accesso al prato erano completamente intasate di persone, auto e Volkswagen T2 con disegni floreali: le radio locali non facevano che parlare d’altro, le proteste dei residenti nella zona raggiunsero anche le autorità che dichiararono la zona “area disastrata”. Anche la cittadina di Woodstock era piena di gente in quanto non tutti colsero lo spostamento della location.
Quello che successe durante tutto il festival fu impensabile: una marea di gente, campeggi improvvisati con tende ovunque, fumo, droghe di varia natura, la paradisiaca musica come comune denominatore e nessun tipo di tensione o disordine; solo giovani mezzi nudi intenti a diffondere pace e amore per far divenire realtà quello che la controcultura degli anni 60 voleva opporre alla grigia vita quotidiana piena d’odio e di rancore che attanagliava il mondo e che forse aveva raggiunto l’apice con il mattatoio della Guerra in Vietnam. Tutta quest’atmosfera di positività fece passare in secondo piano la paurosa scarsità d’acqua e cibo che c’era in quel bailamme. Paurosa perché oltre ai problemi di salute che comporta la scarsità di viveri in una calda giornata di metà agosto, era possibile che si creassero disordini tra il pubblico. Nonostante la situazione da “carestia” e in maniera paradossale l’atmosfera rimase sempre pacifica, mai uno scontro o una rissa: “merito” dell’utilizzo sconsiderato di droghe (soprattutto marijuana) che portò il pubblico in uno stato di piacevole incoscienza che lo alienò dalla realtà per tutta la durata del festival. Piacevole fino ad un certo punto in quanto il piccolo ospedale da campo allestito all’interno dell’area andò al collasso dopo poco, data la numerosità di persone in overdose.
Tutto pronto? Forse. La folla presente, che aveva di fatto reso impossibile il passaggio a mezzi di terra di qualsiasi tipo, fece ritardare l’arrivo di alcuni artisti della giornata. La scaletta dei concerti era fitta di gruppi e cantanti, famosi e meno famosi, e il primo evento si sarebbe dovuto tenere alle 16 del pomeriggio del 15 agosto. La set list era composta da Joan Baez, Arlo Guthrie, Tim Hardin, Richie Heavens, The Incredible String Band, Ravi Shankar, Bert Sommer e gli Sweetwater.
A rompere il ghiaccio ci pensa Richie Heavens con un’ora di ritardo rispetto alla tabella di marcia, di fatto unico artista di giornata presente a quell’ora. A lui l’arduo compito di far cantare il pubblico e di guadagnare tempo per far arrivare gli altri cantanti previsti mentre, per ovviare al problema del traffico, vennero affittati degli elicotteri per permettere al cast di arrivare fino al backstage, ma anche per riuscire ad avere rifornimenti di acqua e cibo.
Dopo Richie Heavens è stata la volta di Country Joe McDonald, previsto in realtà per la giornata di domenica ma anche lui chiamato alle armi per colmare un buco per mancanza di artisti di giornata. Di Country Joe si ricorda la celebre “I Fell Like I’m Fixing to Die”, aperta con un sonoro “fuck” intonato dal pubblico all’unisono per condannare la Guerra in Vietnam. Dopo Contry Joe, ecco il turnista John Sebastian anche lui fatto salire sul palco in assenza di artisti, per poi fare spazio in ordine a Bert Sommer, Ravi Shankar, Melanie Safka (anche lei fuori programma), Arlo Guthrie e infine gli Sweetwater. A chiudere la prima giornata non poteva esserci che Joan Baez.
E se il primo giorno, nonostante tutto, poteva essere considerato un successo, il secondo giorno abbiamo il main-event del festival: alcuni dei più grandi artisti del panorama musicale è qui, in questo folle evento davanti a mezzo milione di hippies.
La giornata è aperta dagli anonimi Quill seguiti da Carlos Santana, Jefferson Airplane, Janis Joplin, i Canned Heat, Greatful Dead, Sly Stone, Creedence Clearwater Revival e, dulcis in fundo, gli Who il cui chitarrista Pete Townshend si rese protagonista forse dell’unico momento di tensione che rischiava di sfociare in un pandemonio generale: un giovane presente tra il pubblico (tale Abbie Hoffman) cercò di salire sul palco durante la loro esibizione per leggere un comunicato sulla liberazione di un attivista politico al microfono. Pete non la prese bene e di tutta risposta lo fece cadere dal palco dandogli un colpo con la chitarra. Incredibilmente finì tutto lì, così. Senza scontri e disordini di nessun genere.
Dopo il successo del sabato, ecco arrivare il terzo e (in teoria) ultimo giorno del festival. Si esibisce per primo un giovane Joe Cocker, seguito dal già noto Country Joe. A notte fonda è il momento del super gruppo di Crosby, Stills, Nash & Young per un set di circa un’ora diviso in due parti (uno acustico e uno elettrico). Il gruppo sale sul palco senza Neil Young (presente dalla quinta canzone) e si presenteranno con la celeberrima frase di Stephen Stills “È solo la seconda volta che suoniamo insieme, ce la stiamo facendo sotto!”. Della performance non sarà soddisfatto proprio Neil Young che cercherà in tutti i modi di cancellare il proprio nome dalla colonna sonora che anche dal successivo film.
Festival terminato? Non esattamente: alle prime luci dell’alba, quando ormai quasi tutto il pubblico aveva lasciato il festival (ufficialmente concluso), salgono sul palco gli Sha Na Na e per il gran finale Jimi Hendrix, con l’esibizione più leggendaria della sua carriera. Leggendaria sì, perché Hendrix dal vivo è pur sempre Hendrix dal vivo; ma soprattutto per aver suonato l’inno americano in versione rivisitata armato di Stratocaster con fascia sui capelli afro e giacca stile far west.
Il festival di Woodstock è dunque leggenda. Ogni singola persona presente, ogni artista, ogni canzone, ogni momento ha fatto la storia della musica. E qua si capisce la grandezza della musica di quegli anni, che riesce ad essere colonna sonora perfetta per un movimento culturale (anzi, contro culturale) che ha visto in Woodstock il suo apice e, inesorabilmente, anche l’inizio della sua lenta estinzione
Articolo del
15/07/2020 -
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