Come ormai è abitudine per le interviste, in apertura sarò breve ma intenso.
In quasi un anno di scrittura assidua per qualcuno (e credo di essermi fatto un gran bel regalo con questa intervista) ho notato che i miei articoli mi vanno assomigliando sempre di più. E graziar’cazzo, direte voi. E invece no, non è una cosa scontata. Non lo è da un punto di vista che definirei politico, in quanto prendo una posizione. Da bravo anarchico tento di girare al largo dai compromessi in ogni frangente, soprattutto quando lavoro e, di conseguenza, scrivo. Mi spiego meglio: sapete che sono dalla parte della musica suonata, sentita, fatta per necessità. Qualsiasi cosa questo possa significare. E adesso faccio un paragone un po’ azzardato: vengo da una “zona d’ascolti” talmente poco mainstream (e, repetita juvant, non lo faccio per fare l’hipster di ‘sta ceppa, quanto più perché fermamente convinto che “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”, dove i “diamanti” sono i passaggi radiofonici) da essermi portato appresso questo bagaglio anche nei miei articoli. Non tanto, spero, nello scrivere- credo di essere abbastanza lineare- quanto nell’accessibilità degli articoli stessi. Lunghi, prolissi (nel caso delle interviste relativamente per mie "colpe"), per chi è veramente interessato. Chiaramente della cosa mi importa quanto mi importava dei miei voti in matematica al liceo (scusa, ma’): meno di niente. Preferisco avere cinque lettori che però capiscano davvero il perché di quello che scrivo o il perché della scelta dell’artista da intervistare, piuttosto che centoventi che però capiscono un quarto di quello che ho scritto e che siano convinti che qualche rigo sopra io abbia smerdato una intera scena solo perché ho detto “letame”.
Detto questo, “dichiaro chiusa la polemica fra me ed il sottoscritto” e passo la palla (e le parole, che sicuramente sa usarle molto meglio di me) a Pino Marino.
Come sempre, buona lettura.
Cominciamo da qualche anticipazione sul nuovo album: titolo (se si può dire), collaborazioni, cosa ci troveremo dentro…
Allora, il titolo non si può ancora dire, semplicemente perché è un titolo che non riguarda solo il disco, ma che riguarderà anche uno spettacolo teatrale a seguire, che avrà lo stesso titolo, ed altre cose annesse, anche un lavoro fotografico. Quindi, siccome sarà parte della comunicazione stessa di tutto questo lavoro, oltre che essere il disco del ventennale discografico che mi riguarda, che già di suo è un argomento di comunicazione. Però la seconda parte dell’argomento di comunicazione sarà proprio, a sorpresa, il titolo del disco, che sarà connesso alla copertina ed è comunque una parola che è presente, di fatto, in tutte quante le canzoni. E che sarà il titolo dello spettacolo teatrale che seguirà: oltre ai live nei club, ci sarà proprio una questione teatrale che riguarderà questo titolo. Lo stiamo ancora definendo, per quello non lo diciamo, abbiamo due opzioni già ben precise, però. Il disco sarebbe dovuto uscire a fine aprile, lanciato da un singolo, che sarebbe dovuto uscire a fine marzo. Invece il singolo uscirà, probabilmente, la seconda metà di giugno, e si chiamerà “Calcutta”. ‘Sto singolo è un film, una invettiva su Roma, che però non ho chiamato “Roma”, ma, appunto, “Calcutta”. Col disco saremo pronti per luglio, come fine lavorazione, mentre per l’uscita pensavamo al primo Ottobre, che poi è il giorno del mio compleanno. Poi, collaborazioni… questo disco risulta prodotto con Fabrizio Fratepietro, mio collaboratore storico, già presente nel primo disco, oltre che batterista e compositore. A lui è affidato il pallino della produzione, anche se chiaramente idee ed arrangiamenti sono di entrambi. Come musicisti ci saranno Roberto Angelini, Vincenzo Vicaro… ci sarà anche una cantante abbastanza prestigiosa, che però ancora non posso rivelare, perché sono in ascolto due pezzi che stanno vagliando, ed a seconda del pezzo che entra potrebbe cambiare l’ospite, però sicuramente ci sarà un’ospite femminile importante. Sarà un disco abbastanza spinto: non ha i toni pacati di “Acqua, Luce e Gas”, non ha le introspezioni di “Capolavoro”, è un disco molto “espulsivo”, nel senso di detonante verso l’esterno, anche se non manca lo “scavo”.
Mi hai, in qualche modo, anticipato la domanda. Quando mi hai mandato il master definitivo di “Calcutta”, che ho ascoltato consecutivamente per almeno un paio d’ore, ho notato proprio questo: è un pezzo abbastanza diverso dalla tua produzione precedente. Come mai questo “cambio di rotta”, se si può definire tale?
Guarda, quello che tu pensi e concepisci “per te”, quindi quando sei ancora in fase di scrittura, non prevede altri che te. Quando, poi, si configura l’espulsione verso l’esterno, è indubbiamente necessario che si scelga la lingua con cui comunicare verso l’esterno. Finchè comunichi con te stesso ed a te stesso va bene anche l’esperanto, non importa. Quando poi arriva il passaggio di comunicare verso l’esterno, a quel punto devi scegliere scrupolosamente la lingua di comunicazione. E la lingua di comunicazione diventa l’arrangiamento. Il contenuto non cambia, ma decido se parlarti in spagnolo, in tedesco o in greco attico: il contenuto è lo stesso, ma scelgo il tipo di sonorità. Il corrispettivo nella musica è la modalità di espulsione, quindi di arrangiamento. In questo momento qui, per rispondere alla tua domanda, avvertendo un eccessivo sopore, una eccessiva cauta e tenue attesa di non so bene cosa, una eccessiva parsimonia nell’esporsi, nell’esporre anche politicamente (e per “politico” intendo il senso preciso del termine: la responsabilità civile del presentarsi di fronte ai fatti)le proprie idee. Sentendo troppo tenue il segnale che arriva anche dalle nuove generazioni, quelle del mio genere, di quello che oggi è indie, ho proprio sentito la necessità di scegliere una lingua molto detonante, molto forte, per comunicare verso l’esterno. Quindi un po’ tutto il disco, chiaramente non sempre come “Calcutta”, è… oseè! Si avvicina più alla sfacciataggine grammaticale, inteso in senso musicale, dei vecchi Lucio Dalla: ci sono anche degli errori, una sproporzione, un osare in quella direzione, che in questo momento mi è sembrata, ovviamente traducendolo a nostro modo, e quindi con gli strumenti e con i contenuti più contemporanei, la cosa migliore. Ecco, credo fosse una scelta migliore ispirarsi di più a quelle cose lì che non a questa sorta di mestizia pianeggiante non suonata, questo “tappetino” che serpeggia e che cerca di assomigliarsi sempre di più perché soltanto quello che si somiglia riesce ad attecchire, proprio perché somiglia già a qualcosa. E quindi questa procedura, questa ossessione di somigliarsi tutti un po’ per avere le chiavi di accesso verso pubblico ed utenza è un po’ una cosa che finisce per svilire la lingua scelta. E quindi la mia scelta di responsabilità musicale è stata quella di andare fortissimo. Andare fortissimo e “rompere”, in una lingua musicale piena di spigoli e piena di cose che sicuramente richiedono un po’di impegno nella traduzione. Però l’attenzione, il fermarsi due minuti, è un elemento fondamentale in questo momento, necessario per riuscire a comprenderci di nuovo. Altrimenti finiamo per ascoltarci per abitudine, come sottofondo. Nella scelta di questa mia lingua c’è anche un’altra richiesta: se non hai tempo, non fa nulla, tira dritto. Ma se hai tempo ti fermi, perché ti sta arrivando addosso una cosa che non sei abituato a sentire in questo modo. Questa, in troppe parole, è la scelta dell’arrangiamento.
C’è un passaggio di “Calcutta” che, al di là di tante immagini bellissime, mi ha colpito più di tutti: c’è questa specie di monito a ricordare Calcutta come “la capitale indipendente del Bengala occidentale”. Chi dovrebbe ricordare questa cosa? E, soprattutto, perché? E’ una semplice constatazione geografica, un simbolo di resistenza o è legata ad un discorso artistico? E’ chiaro che da qualche anno, per chi si occupa di musica, Calcutta tutto è fuorchè la capitale indipendente del Bengala occidentale…
E’ questo il motivo per cui lo ricordo, fondamentalmente Calcutta resta quello che è. Questa cosa fa un po’ il paio con quello che dicevamo. Ci siamo tutti abituati, soprattutto le fortunate ultime generazioni, che non hanno acquisito come noi, ma sono già nate con la possibilità comunicativa planetaria immediata: qualunque dubbio è immediatamente fugato da una ricerca su Google, che chiarisce il nome dell’attore, la data della battaglia, gli ingredienti della torta, qualunque cosa. Questa grandissima ed irreversibile agevolazione comporta però un contrario dannoso, che è l’estrema ed eccessiva rapidità di acquisizione di una nozione. Se io nomino Calcutta a mia figlia, Calcutta è il cantante. Allora all’interno di un pezzo “ingolfato” di immagini, alcune limpide, altre da scardinare, c’è una cosa che è cripticamente semplificata in “Occhio, che Calcutta io la sto nominando, è anche il titolo, ma tu, appena hai letto, hai pensato al cantante, ne sono certo”. Io lo so che leggendo il titolo hai pensato al cantante. E siccome lo so, ti dico che è comunque rimasta la capitale indipendente del Bengala occidentale. Che non vuole essere un insegnamento, è un ripristinare il secondo livello di apprendimento: se ci fermiamo al primo, io digito “Calcutta” su Google ed esce per primo il cantante. Allora scaviamo due minuti in più, andiamo in profondità e ridiamo alle cose ed alle parole il loro ruolo “originario”. Poi non c’è né un attacco a Calcutta, e volendo posso criticare lui (come altri) per aver abbandonato la scrittura emotiva, ma questo è un mio gusto, nel senso che c’è un nutritissimo filone che sta facendo degli elenchi utilizzando un linguaggio già in voga. Mi spiego meglio, vado fuori dalla tua domanda…
Vai pure…
Noi siamo una generazione che è rimasta ammirata da grossi nomi, dei quali avevamo i poster in casa e dei quali aspettavamo le uscite nei negozi. E per ambire a quei nomi dovevamo studiare: un bassista apprendista, vedendo Sting, doveva mettersi a studiarlo, capire come si fa a cantare e suonare il basso in quel modo. E solo dopo averlo “imitato” provava a dare il suo. Noi abbiamo avuto la proposta di un’ambizione, raggiungere una cosa che ci vedeva distanti ed, una volta raggiunta, provare con il nostro linguaggio. Ora invece l’industria ha invertito questa polarità. Invertire la polarità vuol dire che non devi seguire più nulla, non devi ambire più a nulla, perché quello che è sul mercato è esattamente come te. Usa esattamente quel linguaggio, quei capelli, quegli occhiali, e tu sei già così. Questo da una parte è affascinante, dall’altra fa arrivare ad una totale mancanza di studio e di ambizione che finiscono per impoverire. Tant’è vero che la scrittura dei contemporanei, a partire da Calcutta e sopra e sotto Calcutta, alcuni, lui compreso, di gran talento, finisce per ritrovarsi completamente anaffettiva. Tachipirina 500 e 500 che fa mille è un bel gioco, io la tachipirina ce l’ho lì, ad un metro e mezzo, sono elementi del quotidiano che già esistono, e quindi non faccio nessuna fatica. Invece la proposta di provocare continuamente verso la cosa che non ho capito, verso la cosa che non vedo tutti i giorni credo che sia un tentativo inesorabile di premere su una nuova proposta grammaticale, altrimenti siamo fermi al divano, ci accomodiamo su una zona di conforto che non porta a niente, se non ad assomigliarsi e rimediare degli spiccioli.
Torniamo indietro di qualche anno: avresti mai immaginato che “Distanza di insicurezza”, anche solo come titolo, sarebbe stato così attuale?
No, non potevo immaginarlo. Però mi rendo conto di alcune cose, che non riguardano soltanto me. “Calcutta” è stata scritta nell’autunno del 2019, molto prima della pandemia. In realtà mi rendo conto che, iniziando, c’è una descrizione di una Roma vuota, coperta da una nebbia venuta da nord, dove gira soltanto un furgone della Ford, piuttosto che la caposala che gira in questo ospedale con il neon della cicala che lampeggia. Ma in tutte le canzoni, riguardandole, trovo elementi che sembrano scritti a marzo. E questa credo che sia una caratteristica imponderabile di chi scrive: nel momento in cui scrivi, ti predisponi ad un ascolto percettivo che riguarda il passato, che riguarda il presente ma che, non so come, riguarda anche quello che accadrà. Poi, per combinazione, certe cose coincidono, ma tante altre stanno nella sorta di premonizione della scrittura. La scrittura è un’antenna. E nel momento in cui si predispone, con scrupolo e senza distrazione, a trattare il presente guardando il passato, finisce per essere un’antenna, che va un po’ oltre rispetto al suo presente. Per questo, alla fine, coincide con questo curioso appuntamento con quello che non c’è, ma, al contempo, c’è.
Altra domanda, strettamente collegata. C’è un’altra canzone, ancora più attuale, soprattutto per chi si muove nel campo dell’arte, che è “Non ho lavoro”. Al di là delle problematiche della situazione, e delle soluzioni che dovrebbero trovarsi, la domanda tocca un altro punto: come si fa a far “durare” così tanto una canzone? Qua stiamo parlando di un pezzo di circa quindici anni fa…
Sì, quindi anni fa, 2005. Eeeh… le canzoni hanno una durata imponderabile, non calcolabile. Ma sicuramente hanno una durata molto forte nel tempo sempre e solo quando, uscendo, non considerano la pertinenza col loro presente. Tutte le volte che una canzone, proponendosi in pubblico, cerca in qualche modo di ingraziarsi il circostante per essere accolta, finisce per avere una scadenza relativa a quel momento. E questo riguarda la scelta delle parole, il tema, ed anche l’arrangiamento. Tutte le volte che si sceglie di adattarsi facendosi ben volere dal circostante di quel momento, si finisce per accorciare la vita di quella canzone. Tutte le volte che non ci si pone questo problema, in nessuno dei campi presenti in un pezzo, dalla scrittura alla vocalità, ai suoni, generalmente si dà una vita più lunga a quella canzone. E sicuramente “Non ho lavoro” non assomigliava a nulla di quello che c’era in quel momento. E questo magari finisce per essere più in linea con delle cose che andranno dieci anni dopo. E già è una cosa. E poi la lunga vita delle canzoni dipende anche da quanto è centrato quello che dici. Se uno riuscisse sempre a non buttare mai una riga, a non attribuire a nessuna riga nessuna zona –cuscinetto, nessuna zona ammiccante, ma ad avere, ad ogni riga, la necessità della parola… esempio: “Mi sono innamorato di te, perché non avevo niente da fare”. Fine, è per sempre. Non c’è nessun passaggio perduto, nessun ammiccamento. Tanto più si riesce ad essere lapidari, e tanto più quello “scolpito” rimane intellegibile e non equivocabile a prescindere dal tempo che passa. Poi “non aver lavoro e non aver paura di perderlo” è, ancora più che nel 2005, una condizione calzante, a specchio. Non aver paura di niente perché non ce l’ho. Ed è anche la condizione di una generazione molto violenta, che sta abbracciando anche l’urto. Nelle “periferie dell’attenzione” si sta usando l’urto, verbale, fisico, muscolare. E questo avviene quando non si ha nulla da perdere: se non ho nulla da perdere, intanto vado, al massimo muoio. E questa è una cosa che crea anche condizioni più pericolose.
Parlavi di parole, ed era un tema in programma. Io pensavo a “Canzone numero 8”, a quell’ “attenti alle parole”. Tu sei uno che lavora quasi di labor lime: le parole le usi in un modo incredibile, sono cesellate. La domanda, che è una domanda che faccio molto spesso, anche perché mi capita spesso di aver a che fare con gente i cui testi potrebbero essere studiati a scuola, è: ti senti un po’ poeta? E, soprattutto, ammesso che ci sia, dove finisce il confine fra poesia e canzone?
Guarda, qui il confine per alcuni è labile, per altri è nettissimo. Io, per non semplificarmi la vita autoincensandomi, che è un errore che dovremmo evitare tutti, preferisco parlare di poesia come quel pensiero espresso che non ha bisogno di musica aggiunta, perché ne ha di propria. La forma canzone, invece, vive su un binario che, per quanto possa essere scritta egregiamente nel testo, che si può percorrere solo e sempre se accompagnata dalla melodia e dal concetto armonico e melodico che affianca le parole. Soltanto questa combinazione ci fa scegliere, memorizzare, ricordare ed innamorare di una canzone. La poesia, in senso letterale, non vive di una musica di fiancata, mai. Ha una musicalità interna propria. Poi, alcuni autori (e cito De Andrè fra i nostri migliori, ma anche alcuni contemporanei) riescono ad inserire nei loro testi, anche al solo leggerli, una musicalità interna che somiglia molto al percorso ed alla lavorazione della poesia. Però io staccherei un po’ le due cose. Ciò non toglie che esistano degli autori di canzoni poetici, che tengono il segnale poetico come riferimento molto alto. Cioè alcuni autori di canzoni hanno in comune con i poeti la provocazione. E “provocazione” significa andare alla ricerca di quello che non vedi, non accontentarsi del “visto” ed andare ad inventare l’angolo non illuminato. Ecco, alcuni autori di canzoni, fra cui milito, hanno un aspetto poetico perché vanno a rompere, vanno a sperimentare. E questo è un lavoro che fa la poesia. Ma come “poeta” puro preferirei definire chi non ha la necessità di accompagnarsi con la musica, perché già all’interno di quello che scrive ce n’è una.
Secondo te c’è un modo di riuscire a “stare nel temporale ed uscire col sole” attraverso la musica ed attraverso l’arte in generale?
Certo che c’è! Sai qual è il grande segreto, che non è una rivelazione esclusiva, ma una semplice osservazione dei fatti? Che dopo il temporale, il sole viene fuori comunque, a prescindere da te. Noi non abbiamo pazienza, siamo stati allenati dalla società contemporanea ad avere immediatamente il risultato, il gradimento immediato, a percepire a vista l’arrivo. Se noi avessimo un po’ di pazienza ci renderemmo conto che il sole, dopo il temporale, prima o poi arriva. Il grande segreto è utilizzare il tempo nel temporale: non posso rimanere in attesa del sole nel temporale, il temporale è un tempo di lavoro, e soltanto con il temporale certe cose si possono fare. Il temporale è un tempo da ottimizzare, non è un tempo d’attesa. Ed il sole, indipendentemente da noi, arriverà. Ma quando arriva noi avremo lavorato, non avremo atteso. L’arte, in realtà, a differenza dell’industria e dell’artigianato industriale, che devono porsi il problema di ciò che va, pena il non vendere, non deve porsi questo problema, se ne deve fottere. L’arte non lavora sulla spiaggia, sotto gli ombrelloni, magari ci va a finire. Ma lavora sotto il temporale, lavora bagnata, lavora non vista, lavora a prescindere dal fatto che qualcuno la trovi asciutta, magari va anche dispersa con l’alluvione, ma lavora non vista ed a prescindere dal vantaggio. Quella che resiste, poi, verrà esposta al sole, come le seggiolette di plastica, come le puttanate e come tutto il resto. Ma si sarà guadagnata quel posto lavorando non vista e senza preoccuparsi delle mode circostanti.
Parlando ancora di testi, che sono un po’, anche per mia “area di provenienza”, una delle cose a cui presto più attenzione. Tu, accanto alle suggestioni letterarie, utilizzi spesso l’ironia, quella un po’ agrodolce, e penso di nuovo a “Non ho lavoro” o anche a “Lo Strozzino”. Credi che “una risata vi seppellirà” oppure è, in qualche modo, una forma di tenere sulla corda il pubblico?
Io credo che una risata, più che “vi seppellirà”, vi terrà vivi. La risata non va equivocata. Ecco, una cosa molto triste della canzone d’autore degli anni scorsi e dell’indie contemporaneo è questa sorta di “musone”: io non ho mai visto ridere Tommaso Paradiso. Cioè… ma qual è il suo problema? E’ come se nella postura della serietà ci fosse la credibilità, come se in quel muso ci fosse l’appeal per essere intriganti, come se scrivere in La minore con la testa bassa fosse canzone d’autore, mentre in Do maggiore con lo sguardo alto no. Questo è un grosso equivoco, che nasce già dagli anni ’70, ed oggi è reiterato. Pasolini, considerato l’intellettuale scomodo, quello serio per eccellenza, con i suoi scritti, la sua vita, la filmografia e l’occhialone nero, beh… Pasolini era un comico, giocava a pallone, rideva alle barzellette. Come lui Mastroianni, come lui De Andrè. Guccini è un cazzaro, nell’accezione della “popolanità” del termine. Questo far corrispondere al “se non rido sono credibile” il “se rido vado a fare il comico” è un equivoco. Io credo che, al di là del tormento, della macerazione, del percorso da palombaro che puoi fare, magari perché hai scelto di scavare invece che volare, quello che vuoi, c’è il momento esatto in cui ti cade il bicchiere e sei zuppo di latte fino alle ginocchia in cui tu ridi di te stesso. Ridere di noi stessi, e quindi potersi permettere il lusso di ridere degli altri, è una cosa che ci tiene vivi, altro che seppellire! Oggi siamo pieni di ghigni: c’è quell’idiota che mette le felpe di tutte le regioni, non lo nomino mai, che ha applicato una sorta di plastica facciale, e quello non è ridere, quella è una paresi, è mercato, vantaggio. Ecco, la risata, quella vera, non il ghigno, è una cosa che tiene in vita. Ed io mi auguro che anche quelli che sembrano così seri, come il già citato Paradiso, abbiano modo, nel loro privato, di essere dei cazzari, altrimenti si campa male. Se poi uno ha il coraggio, quella strafottenza, quel prendersi e prendere per il culo ridendo, è un uomo fortunato. Io mi considero povero, ma molto fortunato in questo senso.
Mi collego con quello che dicevi sul discorso di esporsi. Tu hai collaborato e sei stato fondatore del Collettivo Angelo Mai e della Piccola Orchestra di Piazza Vittorio (che è un progetto che mi commuove profondamente, qualcosa di meraviglioso, ndr). Le definirei due scelte di campo, non solo artistiche. Ecco, quanto è importante schierarsi, soprattutto quando si fa un mestiere che, in un modo o nell’altro, espone?
Fondamentale. E’ fondamentale. Sai, io credo che l’Italia, come industria pesante, non ha né l’acciaieria né il nucleare. L’Italia, se ha un’industria pesante, è l’arte. E ce lo dimentichiamo spesso. Ma il moto di attrazione che applichiamo e quello che ci arriva è sempre un moto che tiene come centro polare l’arte. Ed è sempre stato così, dal Rinascimento al melodramma, da Puccini ad oggi. Comunque l’arte, con le sue espressioni. E se l’arte è una industria pesante, è abbastanza modo opportuno che i suoi artisti siano, in qualche modo, già i politici. Perché sì, perché c’è una responsabilità diretta sul territorio, che non possiamo lasciare ad altri. Il che non significa armarci coi manganelli, significa che l’espressione artistica, proprio con la grammatica dell’arte deve occuparsi di faccende politiche. Io ho parlato, proprio come interlocutore, con vari sindaci: “Stiamo facendo questo, sta accadendo quest’altro, chi se ne occupa?” Quindi la forma aggregativa, quella collettiva, quella che ti fa fare un passo indietro rispetto al tuo nome, alla tua personalissima insegna luminosa, ma tre passi avanti rispetto ad un progetto comune, di territorio, mi ha fatto sempre pensare ad una forma di detonazione importantissima. L’Orchestra di Piazza Vittorio noi l’abbiamo fondata, così come il Collettivo Angelo Mai, il Collettivo del Pane, la Brigata Prenestae. Ma perché crediamo nella forma collettiva, quella dove non importa neanche più chi ci stia dentro, ma che faccia prendere corpo ad una cosa che rappresenti una istanza forte. E’ un treno piazzatissimo, molto meno fragile di quanto possa essere un progetto singolo. Io posso andare o non andare, il mio appeal può decadere dopo una stagione, magari perché cambiano gli interessi o perché qualcuno fa meglio di me quella cosa. Mentre i progetti collettivi, quelli che si impiantano su una necessità che parte dal marciapiede, dal territorio, quelli rimangono. L’Orchestra di Piazza Vittorio è diventata una entità ormai mondiale, il Collettivo Angelo Mai si è mutato in un organico che oggi si chiama Blue Motion, ma è sempre lì, a far teatro ed a produrre. Ed è una delle poche cose che a Roma continua a produrre. Roma finchè ha avuto i soldi ha riempito le sue vetrine comprando gli oggetti da mettere in vetrina, ma non ha prodotto quelle cose da esporre. Uno dei pochi luoghi in cui si è prodotto, per poi “esporre nelle vetrine” non solo di tutta Italia, ma di tutta Europa, è l’Angelo Mai. Chiaramente con tutte le sue fasi critiche e le sue contraddizioni, ma non si è mai fermato, ha sempre prodotto, e quello è l’importante. E per produrre bisogna sempre indietreggiare un metro dal proprio nome ed aumentare la massa dell’interesse collettivo e dell’istanza territoriale, della necessità. Cosa manca in questo momento qui? Manca che tutti i fuggiaschi musicisti senza permesso di soggiorno che scappano ogni volta che passa un lampeggiante della polizia siano tutelati. E allora vogliamo radunarli tutti, gli facciamo un contratto con una cooperativa, così ottengono un permesso di soggiorno e li facciamo abitare in un’orchestra, stipendiandoli così non scappano più dai portici? Ecco, quella è l’Orchestra di Piazza Vittorio. E’ una necessità. E’ una istanza del territorio. E se tu la osservi e ci lavori e la produci, lei diventa una montagna. Ma hai lavorato ad una necessità del territorio. Parte tutto da lì. Ecco, tutto quello che parte da lì ha modo di esistere, a prescindere da intemperie e mode e da chi c’è o non c’è.
Come sei arrivato al teatro? C’entra il duetto che facesti qualche anno fa con Fabrizio Bentivoglio?
Guarda, il teatro è sempre stato molto presente nei miei spettacoli. Cioè, anche nei live io ho un atteggiamento da canone di teatro, che prevede l’improvvisazione. Ed anche il fatto che non riesco a produrre per tre volte la stessa cosa. Ed è un discorso che parte già da questa cosa qui (si gira leggermente, facendo vedere definitivamente la locandina di “E l’inizio arrivò in coda”, spettacolo portato in scena insieme a Daniele Silvestri). Questa cosa qui era un mio spettacolo che Daniele ha visto. Era una cosa folle, musicale, teatrale, con i tempi spostati. Daniele lo ha visto e, tempo dopo, eravamo già amici, ricevette un invito a Caserta vecchia, in una situazione di teatro- canzone. Lui aveva pronto il tour di “S.C.O.T.C.H.” per i club, non aveva nulla di più teatrale. Avendo visto il mio spettacolo mi disse “Senti, ci mettiamo dentro le mie canzoni insieme alle tue, tu ti inventi quella regia folle che fai, e ce ne andiamo a Caserta vecchia con questo spettacolo?” Io ho fatto una regia “al buio”: nessuno di loro sapeva niente. Era una cosa folle, guidata da un mangianastri! A Caserta vecchia doveva essere una occasione estemporanea, chiaramente. Ma da quel giorno i promoter hanno cominciato a comprare quello spettacolo, che abbiamo portato in giro per un anno. Tre ore di spettacolo in cui, in ogni città, io cambiavo completamente il testo. Rimanevano le canzoni come appuntamento, quelle meravigliose di Daniele, le mie necessarie, ma cambiavo continuamente il testo. Ogni città aveva il suo testo, la gente si riconosceva nella sua città, una cosa folle. Questo è il teatro per me. Poi, lì siamo nel 2012, il rapporto si è intensificato molto, fino a maturare il sodalizio artistico con Vinicio Marchioni: abbiamo fatto insieme uno “Zio Vanja” di Checov, abbiamo fatto insieme un film su Checov, che sarà distribuito appena sarà finito questo periodo assurdo. Abbiamo lavorato a mettere in scena, per la prima volta al mondo, la versione teatrale de “I soliti ignoti” di Monicelli. Abbiamo fatto sessanta date prima che la pandemia ci fermasse, e ne abbiamo ottanta o novanta già per l’anno prossimo. Il teatro è una cosa che, un piede sì ed uno no, ho sempre frequentato. E credo che avverrà, anche vedendo i miei capelli grigi, che poi diventeranno bianchi, un travaso totale. Credo che sarà naturalmente una mia casa più abituale rispetto a quelle più caotiche che ben volentieri ho frequentato e frequenterò ancora. Però, ecco, il teatro sarà sempre più frequente.
C’è qualcuno, sia in musica che in teatro, con cui ti piacerebbe collaborare?
(ci pensa un po’, poi) No, dovrei dire troppi nomi! Più in teatro che in musica. Posso dirti che non ho l’obiettivo di sodalizio con qualcuno da raggiungere. Mi rendo conto, e questo più che altro è un difetto di ambizione, di quelli che non ti fanno scalare le classifiche, che rimango spesso sorpreso da quello che non mi aspetto: una volta al Teatro Valle, durante l’occupazione, aspettando Gabriele Lavia per una lezione, sono rimasto folgorato da un ragazzetto che faceva il suo monologo, ed ho passato il tempo in camerino con lui, parlando di come avremmo potuto far esplodere quel monologo in due, perdendo la lezione di Lavia. Capisci? Corro il rischio di farmi sorprendere dall’imprevisto… magari incontro domani un nome sconosciuto che mi folgora, o magari domani c’è una collaborazione con Ascanio Celestini o con l’ologramma di Carmelo Bene, che appare dal nulla.
Qual è l’attualità del teatro e della canzone d’autore? Anzi, più in generale, del raccontare storie, chè, alla fine, teatro e canzone quello fanno…
Ma guarda, io ho scoperto questa cosa: raccontare non lo fanno soltanto teatro o canzone. Lo facciamo noi nella nostra vita. Quando chiediamo ad una persona anche il semplice “Come stai?”, gli stiamo chiedendo “Raccontami”. E se tu parti dal fatto che c’è già questa indicazione in questa semplice richiesta, è chiaro che da lì in poi è tutto racconto. Siamo un racconto continuo. Diventa un racconto professionale quando, in certi ambienti ed in certe stanze, si fa quello studiando quello. Allora, in quel caso, il racconto diventa lavoro. E con “lavoro” intendo proprio lavoro, eh: una cosa importante che riguarda la tua domanda e lo stato generale del teatro e della canzone d’autore è che dovrebbero conformarsi molto di più con il termine “lavoro”, perché per troppo tempo c’è stato l’equivoco del fare musica o teatro o altre mille cose del genere e sentirsi dire “Sì, vabbè, ma poi come guadagni?” E questo riguarda il teatro ed un certo tipo di canzone, sicuramente non il mainstream. Invece se i teatri all’italiana, in Italia, sono più delle chiese, significa che quello è un luogo di lavoro. I teatri più piccoli. Quelli dove provi e sperimenti, sono luoghi di lavoro. E allora è urgente che tutti quanti scendano non a patti, ma scendano a livello col termine lavoro, con quello che significa. E che lo facciano con meno postura, con meno fame di arrivare: bisogna avere la fame del lavoro, non la fame del piazzamento, chè con la fame del piazzamento noi rischiamo di accettare delle condizioni oltraggiose, riguardo al nostro lavoro. Abbiamo accettato che la musica, ancora più del teatro, diventasse, pur di esserci, un tappetino senza nessun tipo di sangue. Invece dobbiamo ambire, senza posture idiote, alla conformazione del lavoro, rispetto a quello che facciamo. E questa è la condizione primaria. Per quanto riguarda, invece, i settori, la canzone d’autore è qualcosa che passa dei momenti di forma, esattamente come una squadra. E si chiama così non perché quella pop non abbia l’autore, ma perché l’autore prende una responsabilità forte rispetto alla canzone. La canzone pop può avere un autore messo al servizio della comunicazione da dare: diamo ad un autore un soggetto e lui lo scrive “a comanda”. La canzone d’autore, invece, ha questa proporzione leggermente sfalsata: la responsabilità dell’autore domina quasi sull’efficacia della canzone stessa. Come se si potesse permettere il rischio maggiore di non far riuscire la canzone, pur di darle un tentativo in più, una provocazione in più. Se non avessimo commesso degli errori non avremmo scoperto la penicillina. Ecco, se c’è una zona dove è possibile commettere degli errori, è quella della canzone d’autore. Quella del pop non può permettersi robe del genere, perderebbe il budget per fare il pezzo successivo. Ed, appunto, se esiste una zona dove è possibile, anzi, per me è doveroso, incorrere nell’errore, assumendosene la responsabilità (responsabilità dell’autore), è questa della canzone d’autore. Sono delle zone, ecco cosa differenzia canzone d’autore e mainstream. E’ una zona che deve avere una forte responsabilità, ma non “di postura”, con la gobba ed il soggetto sfigato o straccione. No, questa è una zona di vera sperimentazione. E’ la zona che ti permette di fare gli errori che, a tua insaputa, ti faranno scoprire la penicillina, tornando indietro. Errori che poi, magari, verranno anche usati nel mainstream, eh. Sbagliare è l’unico modo per tenere in vita quella zona lì, che è importante per la sperimentazione. Se fai cose del genere senza prenderti il rischio della sperimentazione, poi diventa un bluff.
Ph: Renzo Chiesa
Articolo del
11/06/2020 -
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