Entrare nel maremagno della musica folk è impresa assai difficile, addirittura titanica. E, tuttavia, esemplificando al massimo e cercando di riordinare le idee si può sicuramente arrivare ad avere un quadro certamente più chiaro. La prima scrematura che si può fare è squisitamente geografica: la musica folk, intesa come musica suonata con strumenti etnici e tradizionali (organetto, violino, chitarra battente e tamburelli su tutti), quella che nasce dal popolo e che del popolo riprende spesso le vicende, è (perdonerete il campanilismo) farina del sacco meridionale.
Si possono trovare tre grandi aree d’influenza, ognuna con variazioni più o meno sensibili, non dimenticando che il collante unico di queste aree è il cantato rigorosamente nel dialetto di appartenenza. E qui abbiamo la seconda scrematura di questa mappa del folk, una scrematura che si basa sulle differenze stilistiche in correlazione alle zone di provenienza. In Sicilia, ad esempio, abbiamo un “non- folk”, nel senso che i padri fondatori del folk siculo (Rosa Balistreri, Ciccio Busacca, Orazio Strano, per citare i tre più importanti) consideravano la musica come un semplice accompagnamento ritmico per raccontare delle storie (a parte Rosa Balistreri, cantante vera e propria), seguendo la scia tracciata dai famosi “cuntisti”, i narratori delle gesta di Orlando e del ciclo carolingio.
Chiaro che, proprio per la sua natura fortemente narrativa, stiamo parlando di una musica strumentalmente minimal, fatta da un semplice accompagnamento di chitarra. Negli anni ’70, poi, l’operato del FolkStudio di Palermo riporta alla luce alcuni pezzi della tradizione del capoluogo siciliano miscelati a testi nuovi che però, del carattere popolare ed impegnato del folk, sono pieni. Elsa Guggino, Enrico Stassi, Domenico “Claudio” Lucia e Salvatore D’Onofrio sono fra i nomi che richiedono giusta menzione.
Come, più spostato sul versante catanese, Alfio Antico, percussionista fra i più noti, che suonerà anche con i Musicanova, di cui parleremo dopo. In seguito, sulla scia che accompagnerà la definitiva riscoperta del folk, intorno ai primi ‘90, nascono gruppi come Agricantus, Unavantaluna, Lautari, Taberna Mylaensis, o progetti solisti come quello di Kaballà, al secolo Pippo Rinaldi e, in tempi ancora più recenti, Mario e Francesca Incudine. Il folk siciliano è caratterizzato da una ritmica meno martellante rispetto, per esempio, ad una taranta, canzoni spesso in modo maggiore ed un marcato utilizzo di fiati come ciaramedda (dal suono simile ad una cornamusa) friscalettu, marranzano e quartara, i primi due strumenti solisti, gli altri due strumenti più ritmici.
Dalla Sicilia andiamo in Campania, dove, parlando di folk, non si può non cominciare dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare, che ha l’enorme merito di aver cominciato a sdoganare il canto popolare anche a livelli più mainstream. Di quell’ensemble storica vanno citati Carlo D’Angiò, Peppe Barra, Roberto De Simone ed Eugenio Bennato. Proprio Eugenio Bennato fonda, successivamente i Musicanova ed, ancora in seguito, il movimento Taranta Power, con lo specifico scopo di riscoprire, preservare e tramandare il patrimonio musicale ed antropologico del sud Italia. Insieme a Bennato, una grossa spinta al movimento è stata data da Enzo Avitabile ed Enzo Gragnaniello, senza dimenticare, a livello interpretativo, Teresa De Sio e Pietra Montecorvino.
Oltre a loro, è degno di menzione l’operato di gruppi come I Tamburi del Vesuvio ed i Corepolis, che, rispetto al folk siciliano, utilizzano, soprattutto i Tamburi, sonorità più barocche, con un grande uso di una sezione di archi. Da sottolineare anche l’apporto dato alla musica popolare dal genio di Vinicio Capossela, che è probabilmente, il più trasversale fra tutti gli interpreti citati, e si trova nella “sezione Campania” solo perché irpino d’origine.
L’ultimo distinguo di questa disquisizione abbraccia una macroregione formata da Calabria, Basilicata e Puglia. Questo grande accorpamento è dato dalla comune e più radicata presenza della taranta nella tradizione musicale. Già, a differenza delle espressioni musicali delle due precedenti regioni, gli stilemi cominciano ad essere più comuni: linee vocali all’ottava alta, ritmi decisamente più martellanti e largo utilizzo di modi minori. Espressioni di questo tipo di folk sono i QuartAumentata, Il Parto delle Nuvole Pesanti, Peppe Voltarelli da solista, e Mimmo Cavallaro e Cosimo Papandrea TaranProject in Calabria, Antonio Infantino ed i Tarantolati di Tricarico in Basilicata. In Puglia, evidentemente la regione della taranta per eccellenza, troviamo invece il Canzoniere Grecanico Salentino, i Tamburellisti di Torrepaduli e Pierpaolo de Giorgi, gli Argalìo, il virtuosismo ritmico di Giancarlo Paglialunga ed il folk colto dei Radiodervish. Altra menzione speciale va fatta ad Ambrogio Sparagna che, pur essendo laziale di nascita, ha sempre svolto attività di ricerca sulla musica del sud Italia.
Questa enorme prefazione mi sembrava il giusto preambolo all’intervista che Massimiliano Però, organettista e tamburellista fra i migliori del Salento, mi ha rilasciato (con enorme cortesia, competenza e disponibilità ndr) in occasione della diciannovesima edizione del Premio Luigi Stifani (di cui lo stesso Però è direttore artistico) tributo al grande violinista- taumaturgo neretino, autore delle linee melodiche di moltissime fra le pizziche più popolari del Salento, guaritore di molti tarantati e, contestualmente, “salvatore” della tradizione popolare grazie alla sua collaborazione con l’antropologo Ernesto De Martino.
Qual è l’importanza che serate come questa hanno nella diffusione e nella divulgazione della musica? L’importanza di queste serate è quella di riproporre fedelmente, o quasi, brani della tradizione popolare senza stravolgimenti, che in genere vengono fatti. La musica popolare, al di là della regione di provenienza, funziona. Sono due accordi. E funzionano. Non c’è bisogno di troppe modifiche. E lo dico perché io per primo, in vent’anni di carriera, nonostante abbia sperimentato e contaminato, mi sono reso conto che la musica popolare funziona per come è. Prova ne è che, nonostante ognuno faccia il suo, la sua versione, la sua contaminazione, alla fine ci si ritrova sempre sulla linea della tradizione. Io posso fare una mia versione di un brano, altri la loro, ma quando ci si trova a suonare quel brano insieme non è detto che ognuno conosca la versione dell’altro. Ed allora si finisce, ovviamente, per suonare la versione che tutti conosciamo, quella dalla quale tutti siamo partiti. Ecco, l’importanza di questo festival sta lì, nel tramandare la musica popolare propriamente definita, senza batteria e cose simili. Questo è il primo anno che facciamo questo esperimento, questo ensemble di musicisti salentini, nato con l’intento di “contrastare” tutte le varie orchestre popolari, che usano batteria e strumenti elettrici. Ecco, l’intento è quello di riportare la tradizione al centro, allargare sì le orchestre, ma togliendo tutti quegli strumenti che non c’entrano nulla con la tradizione popolare salentina
Queste contaminazioni, in riferimento anche a tutte quelle viste negli ultimi anni alla Notte della Taranta, e mi viene in mente Bombino, che svisò su “Lu rusciu de lu mare”, come vengono viste da chi con la taranta ci lavora quotidianamente? Da un lato possibilmente servono a far conoscere ancora di più questo genere. C’è un “ma” in questo aspetto? Sì, c’è un “ma”. La Notte della Taranta negli ultimi anni è diventata un evento mediatico molto più commerciale, ha i presentatori, va in diretta Rai, cosa diametralmente opposta alla musica popolare. Attenzione, non sono contrario a questa scelta, questo canale. Ma sicuramente è in netta antitesi con questo festival, che, in diciannove anni, è sempre rimasto tradizionale e popolare, e nonostante l’aggiunta di strumenti, il modo di leggere la musica è sempre rimasto legato ai moduli tradizionali. Noi abbiamo puntato anche sulla riscoperta, riprendendo sette/ otto brani meno conosciuti dello stesso Stifani. C’è stata la volontà di non cercare lo spettacolo a tutti i costi, per concentrarci più sulla musica suonata, sulla cultura, sulla tradizione
Si parla di riscoperta. Ecco, la riscoperta della pizzica da dove nasce? La riscoperta della pizzica nasce attorno agli anni ’80. E prima di essa, per circa vent’anni, a causa dell’avvento della televisione e della voglia di essere più “cittadini”, di cancellare il ricordo della vita di campagna, non si suonò praticamente più nulla di popolare, tutto bollato come roba vecchia. Anche la vita di campagna, da sempre scandita dal canto che ritmava il lavoro, con l’avvento della motozappa, smise di “cantare”. Dagli anni ’80 c’è stata poi la ripresa di tutti questi canti popolari, che, ovviamente non è stata facile, perché gli anziani, depositari dei canti popolari, dopo questo ventennale silenzio “forzato” non ricordavano più molto. Di conseguenza, questa rinascita partì dalle registrazioni degli anni ’50, da quello che il lavoro di Lomax, Carpitella e De Martino ci aveva lasciato
Le nuove generazioni stanno cominciando ad interessarsi molto a questo ambiente, fortunatamente Sì, dal duemila in poi c’è stata questa rinascita della musica tradizionale fra le nuove generazioni, sulla scia di quel “rimpianto” che aveva accompagnato la riscoperta degli anni ’80 e ’90. Una rinascita che, almeno per il momento, sta vedendo una certa aderenza alla tradizione, non c’è il bisogno di cercare a tutti i costi la commistione con un altro genere, si cerca piuttosto di modernizzare, magari aggiungendo uno special, o di “aggiornare” le versioni, inserendo più strumenti, comunque aderenti alla tradizione, qualche fraseggio o qualche bordone, magari anche per aggiungere ulteriore dinamismo al brano
L’importanza della canzone popolare è racchiusa anche nei testi, e la taranta non è da meno. O sbaglio? Assolutamente no. C’è da dire che il Salento è il canto, prima ancora che la musica. Il Salento è il canto. E proprio per questo motivo i testi, i contenuti del canto, hanno una enorme importanza. Già nel repertorio del Canzoniere Grecanico Salentino o degli Argalìo sono presenti delle vere e proprie canzoni di protesta. Poi, a livello testuale c’è stato un livellamento: ogni famiglia aveva la propria pizzica, con delle microvariazioni, ma in generale tutte diverse le une dalle altre
Ultima domanda: nel corso degli anni, e penso ad Eugenio Bennato a Sanremo o il Parto delle Nuvole Pesanti con Claudio Lolli o Mario Incudine che racconta di Garibaldi in Sicilia, c’è stato uno sdoganamento letterario prima ancora che musicale della canzone popolare. Ecco, questa commistione come è considerabile? La musica tradizionale, secondo me, dovrebbe seguire il filone che l’ha sempre contraddistinta, vale a dire che non dovrebbe perdere l’attenzione alle tematiche del popolo. Attenzione, si può pure fare una musica tradizionale pura, riprendendo vecchi pezzi e rifacendoli uguali, con la sostanziale differenza che le nostre voci non saranno mai uguali a quelle dei vecchi maestri e si finirebbe per scimmiottare. Ecco, la soluzione odierna potrebbe e dovrebbe essere quella di scrivere testi nuovi raccontando quello che non va, raccontando delle esigenze del popolo, montando tutto su una musica di stampo tradizionale Una canzone di protesta a tutti gli effetti, quasi cantautorale
Mi piaceva chiudere questo articolo anche con un intervento di Antonio De Icco, dei Koremey (un gruppo formato da ragazzi sotto i quattordici anni), che trovo molto bello per chi fa musica
Quanto è importante suonare ed ascoltare tanta musica? Tantissimo. La musica è cultura, arte. Ed è molto importante avvicinare i giovani alla musica. È passione, arte, ricerca. La musica ti allontana da tante cose brutte e ti apre un sacco di mondi
Articolo del
01/09/2019 -
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