Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco. Pensi di averli inquadrati, ma i torinesi capitanati da Luca “Swanz” Andriolo riescono ogni volta a sorprenderti. Sad Dolls And Furious Flowers il terzo album dell'ensemble in uscita su Gusstaff Records, non sfugge alla regola.
E non potrebbe essere altrimenti per un progetto che della commistione tra generi, stili e riferimenti ne ha fatto un atto costitutivo, tra citazioni colte, poesia, cabaret, teatro(-canzone) e ovviamente musica, tanta musica. E strumenti, tanti strumenti. La line up negli anni è sempre stata in evoluzione (da trio banjo-violino-fisarmonica ed elettronica a una formazione più ampia, con fiati e più archi) e aperta a vari collaboratori, con una miriade di elementi che hanno concorso a creare un suono pieno di rimandi e suggestioni ma con una forte impronta peculiare. Un loro disco lo riconosci subito, nonostante tutto. In questo vi risuonano Nick Cave, Tindersticks, Leonard Cohen, Vic Chesnutt, Calexico, Jacques Brel, Einsturzende Neubauten e molti altri, con in aggiunta una meravigliosa cover di Venus In Furs dei Velvet Underground. Definirlo è impossibile, c’è dentro di tutto.
E’ come un’enorme torta salata succosa e filante della quale non sai che lembo addentare per primo. Meglio lasciarsi la parte migliore per ultima o iniziare proprio da quella tenendosi la crosta per dopo, quando faremo la scarpetta col sughetto rimasto? Gli ingredienti in questo caso sono musicali e vanno dal folk alla canzone francese passando per jazz, tzigana, tex-mex e bluegrass, il tutto condito qua e là da atmosfere noir, spasmi industrial e derive quasi noise. Pazzesco. Balcanica, folk americano, sperimentalismo mitteleuropeo e musica araba si ritrovano come fratelli partoriti dallo stesso grembo, banjo e mandolini si scoprono legati dalle stesse corde, trombe e fiati vari uniti nello stesso respiro. Il combo si conferma un’eccellenza della musica italiana (ma ha senso parlare di confini nazionali ?) e in occasione di questa terza uscita abbiamo parlato con il leader e fondatore nonchè polistrumentista (ma va’?) della band. Leggete, ma soprattutto ascoltate. E poi provate a trovare un disco migliore uscito quest’anno
Detto delle difficoltà di catalogare “Sad Dolls And Furious Flowers”, vuoi descrivercelo tu che lo hai realizzato? C'è una parte recitata, prima in inglese e poi in spagnolo, che a suo modo dice tutto, ma non va spiegata, perciò non vale come risposta. Dopo lo strumentale d'apertura, la prima frase cantata del disco dice: «Ci sono promesse nella brezza della sera che la notte non potrà mantenere». L'ultima, prima di una strofa presa da una poesia di Borges, recita: «Quando non sei spaventato a morte, alla fine, è abbasta divertente”» Ecco, è un album sulla speranza e sulla disillusione, sulla paura del futuro e la nostalgia del passato, ma anche viceversa. Sono canzoni sulla tristezza, la bellezza, le bambole e i fiori. La furia del titolo non è negativa: è una forza vitale. Però sì, ci sono alcuni brani mesti, in un certo senso, ma ci sono anche canzoni molto grintose, molto più rock che in passato. È un disco più “aperto” rispetto ai precedenti, forse più universale. Musicalmente va da una sorta di bluegrass (quasi punk) alla canzone francese, ha elementi kletzmer e tex-mex, molto folk americano, ma eterodosso, la consueta dose di cabaret, rumore, echi di jazz ballad e persino un po' di elettronica. Detto così pare meno coeso di quanto sia in realtà. Diciamo che è un viaggio notturno che finisce al mattino. La giornata che seguirà, magari, la racconteremo un'altra volta. O dal vivo, perché no?
La domanda più stupida in questi casi è “com’è nato il disco?”. Però qui c’è un aspetto da considerare, e cioè che una reazione così naif può essere giustificata a fronte di tanta meraviglia (non per farti una sviolinata). Devo dire che ascoltando l’album se ne scoprono ogni volta nuove stratificazioni È stato un disco travagliato, si può ammettere. Molto personale da un lato, molto più corale dall'altro, anche se è strano pensare che le due cose possano convivere. Da una parte abbiamo lasciato che ogni collaboratore portasse la propria esperienza e il proprio gusto, dall'altra siamo rimasti come al solito - o anche di più, visto che a un certo punto pareva di lavorare a un concept album - fedeli a un'idea e a un'estetica, per quanto riguarda gli arrangiamenti e le sonorità. Grande apporto per dipanare la matassa è stato dato da Carlo Barbagallo, a registrazioni finite, per mixare, riordinare, uniformare e anche cambiare ciò che andava cambiato.
Il terzo album di solito è un crocevia importante per una band (o almeno si dice sempre così). Sentite di aver chiuso un capitolo o intendete questo lavoro come l’inizio di un nuovo percorso? Lo si dice anche del secondo. Non parliamo, poi, del primo! Sì, per certi versi sembra si sia conclusa una trilogia, gli omaggi sono stati tributati, la personalità è stata cercata, trovata, messa in discussione e via dicendo. Non abbiamo nulla a cui essere fedeli, neanche un genere musicale. Per noi è un disco ambizioso e importante, ma nei concerti ci saranno già anche brani nuovi, inediti. La vena non s'è esaurita e anzi al momento abbiamo una creatività...furiosa.
Si tratta del vostro esordio su Gustaff, dopo gli altri due album usciti su ViceVersa. Come mai il cambio di etichetta? La musica è fortunatamente un campo dove è accettata la poligamia. Il mio disco solista è uscito per Desvelos, ad esempio. Per noi era importante, visto il tipo di musica che facciamo, affacciarci a un mercato internazionale. Abbiamo una nostra nicchia che a livello di vendite ci ha dato soddisfazioni, però era giunto il momento di guardare e farci sentire fuori dal nostro paese e la Gusstaff lavora con molti musicisti che sono particolarmente affini alla nostra visione della musica.
Il vostro album precedente, Late For A Song, risale al 2014. Prima accennavi al tuo disco solista, uscito l’anno scorso sotto il nome di Swanz The Lonely Cat. Quanto di quell’esperienza ritroviamo in Sad Dolls…? Sto gestendo diversamente il recitativo, per rimanere più ancorato alla melodia, anche se il pathos è lo stesso di sempre e mi diverto a fare un sacco di armonizzazioni. Ma tutti di Dead Cat hanno fatto molti cori in questo disco (ed è una novità). Diciamo che un disco solista, composto di classici come è Covers On My Bed, Stones On My Pillow, è un modo per lavorare sul proprio stile, ma anche per affrontare le canzoni in un modo potenzialmente diverso. Il disco ha avuto un'ottima accoglienza, quindi anche con la band si è alzata l'asticella, in un certo senso. Anche se non pare, c'è una voce un po' diversa in ogni brano, così come le parti di violino pescano da riferimenti lontani tra loro e la fisarmonica è usata in quasi tutti i modi possibili, compresi quelli meno tradizionali. Sad Dolls… è il nostro lavoro più timbricamente vario, ecco
Ovvio che se uno vi ascolta, la prima parola che gli viene in mente è “coralità”. Ma anche “itineranza” è parecchio vicina al vostro sentire, perlomeno in senso ideale, di viaggio mentale più che fisico La cosa che conta di più è l'atmosfera. Siamo tutti polistrumentisti e abbiamo un grande amore per ciò che uno strumento può portare, anche solo a livello di suggestioni geografiche o timbriche, in una canzone. Perciò una semplice scala di duduk ci porta in Armenia, poi un banjo bluegrass ci porta in America, un'apertura orchestrale ci fa sognare prima che una balalaika o un mandolino portino tutto a un livello più terreno. Quel tipo di tocco, il trillo o trillato, tipico tanto della musica dell'Est Europa che dell'Italia, nonché di parte della musica americana, è una sorta di trait d'union trai brani. Il resto è voglia di sperimentare, esplorare, collaborare. E i contributi, possiamo dire, sono venuti da musicisti di grande preparazione e generosità, come Luca Iorfida, che è nell'organico dei Dead Cat fin dall'inizio, Mattia Barbieri, Stefano Risso, Elia Lasorsa (nostro collaboratore storico), Enrico Farnedi e Ivan Bert (due trombettisti lontanissimi tra loro), Francesco Valtieri, Luca Biggio al clarinetto (che ha davvero dato una veste inedita anche per noi a certi brani), Francesca Musnicki, Gabriele Zoccolan (che ha una chitarra classica a dieci corde), lo stesso Carlo Barbagallo a cui ogni tanto abbiamo messo in mano uno strumento, Davide Tosches con cui abbiamo registrato le basi, Oreste Forestieri (che ha portato la sua passione per la musica mediorientale), senza contare la semplice gioia di suonare con gli amici di sempre, come Thomas Guiducci e Roberto Necco (con cui soprattutto io collaboro spesso). La lista è lunga e possiamo dirci onorati da questi contributi. Non si è mai trattato di una sorta di jam session: la mappa era chiara, sulla carta, ma il mare era agitato e il naufragio in fondo non così temuto.
E’ quasi impossibile elencare tutti i vostri riferimenti musicali. Ad un primo ascolto se ne scovano già tanti, ma ce ne saranno sicuramente altri meno immediati. Illuminami Senza pensarci troppo aggiungerei Leonard Cohen, Willard Grant Conspiracy, Bonnie Prince Billy e Vic Chesnutt, ma le influenze sono sempre qualcosa di delicato, intimo, pericoloso. A volte paiono ovvie, altre sono più nascoste solo perché l'ispirazione viene personalizzata in modi inediti, altre ancora perché i riferimenti iniziali (o incontrati e rintracciati lungo la traversata) sono meno celebri degli artisti più ovvi. E poi si mischiano, com'è giusto che sia in ambito folk e non solo. The Place You Shouldn't Go, ad esempio, potrebbe essere un brano di Greg Brown, una porch song per banjo scheletrico e voce dimessa, che però incontra gli umori più apocalittici di un Steve Von Till; Not A Promise ha dentro anche Chet Baker, ma ha accordi a loro modo prossimi a Bowie; Mexican Skeletons poi, potrebbe essere una canzone apocrifa di Warren Zevon che giustamente finisce in territori battuti da Willy DeVille, incontrando ovviamente i Calexico. Liricamente, non abbiamo parenti molto prossimi. Le Vent è una ballata francese che da inno anarchico si trasforma in canzone d'amore, però compare un chumbus che Jacques Brel non avrebbe usato e una sega musicale che sa di Black Heart Procession; e la cover di Venus In Furs torna in Ungheria, dove è nato Sacher-Masoch; e poi The Voice You Shouldn't Hear (che è la descrizione di un attacco di panico, a suo modo) ha elementi di musica araba, ma anche un beat e strumentazione rubati alla…dubstep! A momenti pare un ibrido tra Nine Inch Nails e Pogues con momenti bargeldiani, ma alla fine è pura Dead Cat, per come siamo adesso. È sempre molto stimolante e divertente anche cercare di pestare fuori dalla propria ombra.
Quando vi vedremo in tour? Ci vedrete, ma è presto per parlarne. Sarà più teatro-canzone che semplice concerto, con elementi già presenti nei video. Non vediamo l'ora, a dire il vero
Articolo del
21/05/2018 -
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