Mancano poche ora al concerto di stasera (19 aprile ndr) dei Zen Circus all’Alcatraz di Milano, giusto il tempo per scambiare quattro chiacchiere con Karim Qqru, batterista del gruppo
Com’è nato il fuoco in una stanza? Ho letto che è stato scritto a ridosso del tour de La Terza guerra mondiale, come siete riusciti a trovare il tempo e la concentrazione per entrambi? La lavorazione è iniziata nei sei mesi antecedenti l’uscita de La Terza Guerra Mondiale, l’album era pronto e masterizzato e noi ci siamo trovati in studio a lavorare ai pezzi nuovi e via via a strutturarli meglio qui parte la prima semina e durante il tour è poi arrivato il via via il resto del disco che ha visto la maggior parte della lavorazione una volta finite le date a dicembre 2017. Avendo uno studio di registrazione di nostra proprietà è stato sicuramente più immediato lavorare ai brani fare i provini e registrarli in via definitiva. La parte strumentale de Il fuoco in una stanza ad esempio è stata scritto per “La Terza Guerra Mondiale” ma avevamo già capito che non sarebbe entrato in questo disco proprio per lo stile strumentale del pezzo e quando abbiamo cominciato a scrivere i pezzi nuovi abbiamo visto che sia come arrangiamento che come armonia e una volta delineato il testo lo abbiamo tenuto per il nuovo disco. Mentre eravamo in studio per fare i pezzi nuovi, c’è stata la netta sensazione che Il Fuoco in una Stanza sarebbe stato un disco diverso non tanto per il processo produttivo che è stato abbastanza simile al precedente come tipo di impegno ma è un disco diverso sia strumentalmente che testualmente.
L’album parla molto di rapporti umani con un’enfasi particolare sulla famiglia di cui si affrontano dinamiche in modo molto profondo e intimo, tanto che sono sempre di più le persone che ci si riconoscono, che effetto vi fa questo? Il discorso della famiglia è sempre stato un tema degli Zen che negli album passati presente ma mai davvero approfondito com’è invece stato per questo nostro nuovo lavoro. Andrea (Appino) è riuscito sempre con i suoi testi sempre a mettere tutti d’accordo, abbiamo corretto poco o nulla perché è sempre riuscito ad unire l’essenza degli Zen alle parole che nascono della vita, dall’immaginario e delle esperienze comuni di tutti noi. Questo disco dal punto di vista dei testi è molto più denso e nero degli altri album, perché va a sviscerare tutto quello che implica le catene simboliche, le difficoltà e le idiosincrasie del bisogno della dipendenza che spesso si trova in una storia familiare ad esempio brani come “Catene”, “La stagione” e la parte iniziale de “Il fuoco in una stanza” vanno ad analizzare in modo abbastanza spietato e crudo, ma non necessariamente nell’accezione negativa del termine, il tema della famiglia, generando una grande empatia nel pubblico. Possiamo sicuramente dire che questo è l’album più empatico degli Zen, chi l’ascolta ci si riconosce molto e questa è la vera vittoria del disco. Dal 2008 siamo cresciuti molto e il nostro pubblico rispetto ad allora è triplicato, La terza guerra mondiale ci ha permesso di farci conoscere e apprezzare a molte più persone e ha raggiunto anche un pubblico di età più adulta
Lo definiresti un album generazionale o maturo? La frutta matura cade e marcisce, la maturità è un concetto che quando viene avvicinato alla musica secondo me diventa quasi pericoloso. La maturità viaggia sui binari dell’esperienza, di progettualità e calma e gli Zen su questi binari ci viaggiano fino ad un certo punto. Per noi è molto importante l’imprevedibilità che mettiamo nel fare nel fare musica quindi, per rispondere alla tua domanda, spero che il disco veramente maturo degli Zen non si farà mai (Lo spero anche io)
Agganciandomi alla domanda di prima, ormai gli Zen suonano da tanti anni, come è cambiato secondo voi il panorama della musica, qual è la vostra percezione in merito? Questo sarebbe è un discorso lunghissimo che sfocia quasi nell’antropologia. Diciamo che è sicuramente cambiato il modo di approcciarsi alla musica di un certo tipo, prendi per esempio l’indie, che etimologicamente peraltro non vuol dire nulla. L’indie nasce per dare una catalogazione alle etichette indipendenti della scena underground americana inizi degli anni ‘80 e fino all’avvento dei Nirvana. L’uso che se ne fa oggi sulla maggior parte dei gruppi è assolutamente nonsense soprattutto se pensi che ogni cantante o gruppo della scena italiana definito tale (noi compresi), ha legami editoriali e contratti con major e multinazionali, quindi di “indie” non c’è assolutamente nulla, è una parola che va di moda che serve a prendere per il culo la gente, ma anche quello è un indotto che fa numeri, che ci vuoi fare. Ogni generazione ha la sua copia è una cosa ciclica, ai miei tempi c’era il new punk o new metal con il tipo di abbigliamento e giornali dedicati, ti fa credere di essere alternativo mentre quella è la faccia peggiore dell’anticonformismo. Anche io pensavo di essere un grande ribelle che ascoltavo solo punk rock mentre invece ero il prodotto di McDondald punk rock e così come me ne sono accorto io lo farà anche l’attuale generazione che si definisce indie. E’ normale così e non c’è nulla di sbagliato. Per quanto riguarda la musica invece c’è stato l’abbattimento delle barriere tra mainstream e alternative, quando abbiamo cominciato a suonare il solo pensiero di fare un soldout all’Alcatraz era folle perché i gruppi di punta della nostra scena ne facevano 500, mentre ora le cose sono cambiate, reali e i numeri ti consentono il tutto esaurito proprio per queste barriere che non ci sono più. Stessa cosa per la musica “indie” che oggi riempie i palazzetti anche per sei date di fila. Quando io ero ragazzino e ascoltavo il noise e il metal, non esisteva che oltre ai Butthole Surfers o i Big Black poi mettevi un pezzo del cantautore italiano. Era tutto più chiuso come in ghetti, una divisione tra quella che era l’attitudine l’estetica di un certo tipo di musica e quello che non lo era. Ora non è più così si ascolta da Dente agli Zu e questa è senz’altro una cosa bella. La musica ha fatto cadere quei paletti ed è riuscita a superare quei limiti, consentendo alle persone di ascoltare molte più cose diversificate tra loro e andando anche a più concerti, aumentando anche l’interesse dei media che prima non c’era. Prima un gruppo come noi non sarebbe mai andato a Quelli che il Calcio o ospiti a Radio Deejay però questa cosa succede a noi così come a molti nostri colleghi. Prima un disco lo ordinavi in vinile e lo aspettavi per più di un mese e me lo ascoltavo per i sei successivi, adesso invece c’è Spotify. Adesso è tutto diverso, il mondo va avanti e cambia la fruizione della musica e non è detto che sia una cosa sbagliata
A proposito del mondo che cambia, gli Zen parlano molto della collettività, come definiresti la società in cui viviamo? Siamo una collettività accecata dalle cose che brillano. Trovo gli italiani campioni nell’essere più stupidi di tutti e con la memoria più breve d’Europa ma dotati di guizzi di genio che fondamentalmente ci salvano il culo nella storia. Io non voglio credere che la realtà della collettività italiana sia quella presente oggi sui social, ma più vado avanti e più mi rendo conto che le problematiche sociali, comportamentali e l’ignoranza che ci sono sui social purtroppo rispecchiano esattamente la nostra società, almeno per l’idea che ho io. La classe politica che abbiamo è esattamente lo specchio di quello che siamo ed è colpa di tutti noi. C’è da fare un lavoro sulla collettività enorme, io credo che si debba arrivare al punto zero prima di poter risalire, che non deve essere per forza una guerra, ma credo sia più un venire a patti con la realtà. Siamo nel 2018 e ci troviamo al punto minimo dei crimini in Italia, sono dati dell’Unione Europea e del Parlamento, eppure ci inculcano che viviamo in una società pericolosa e degenerata, e se vedi il mondo che emerge dai social c’è un odio, una voglia di giudicare e di giustiziare che fa paura. Ci stiamo impegnando con la nostra cattiveria a creare un mondo carico di odio e di diffidenza nell’altro e non è colpa delle Istituzioni, ma nostra
Possiamo dire che la storia che gli Zen hanno cominciato a raccontare con “Andate tutti Affanculo” si conclude con questo ultimo album chiudendo un po’ un cerchio o questo è semplicemente un capitolo di un percorso molto più lungo? Gli Zen possono far schifo o piacere, ma sono sempre stati sinceri soprattutto nel descrivere la realtà che abbiamo intorno, gli Zen sono così e questo sicuramente porterà a far invecchiare male dei nostri dischi. Quando descrivi la realtà che hai intorno in quel momento ci sono delle cose che poi nel tempo cambiano, così come cambiamo noi come persone. I fan della vecchia guardia, quelli di Andate tutti affanculo, ci sono rimasti male perché fondamentalmente vorrebbero da noi sempre lo stesso disco “arrabbiato”, fortunatamente sono una piccola parte perché, come dicevamo prima, avendo raggiunto un pubblico più vario e ampio la forbice di chi ci segue si è allargata. “Il Fuoco in una Stanza” è un album molto più incazzato di “Andate tutti Affanculo” che in realtà era più ironico e disincantato che però è figlio del suo tempo e di un’Italia che oramai ha dieci anni. E’ un disco che per noi è molto importante ma che, personalmente io come musicista, non come membro degli Zen Circus, sta invecchiando benissimo per alcuni versi e malissimo per altri, perché era un disco molto attuale del tempo che fu, ha delle canzoni che rimarranno per sempre nel nostro immaginario perché le considero senza tempo e altre canzoni che secondo me rimarranno meno impresse. Ma questo succede per tutti i dischi. “Il fuoco in una stanza” vede gli Zen di dieci anni dopo e quindi non riesco a dirti che questo album chiude un cerchio perché dipende sempre da quello che faremo più avanti, ciò che posso dirti è che questo è un album di transizione ma più dal punto di vista strumentale e come approccio alla stesura dei testi perché per la prima volta abbiamo cominciato ad affrontare i rapporti umani scindendoli da quelli sociali. Nelle canzoni degli Zen il mondo attorno a noi, la società, ha sempre occupato un posto importante tanto da lasciare in secondo piano i rapporti personali e più intimi. In questo album è il contrario, quindi ci sta che sia una porta per andare da qualche altra parte e fare qualcos’altro ma sempre il tutto con il marchio Zen
Il fuoco in una stanza in tour e dopo? Vi prenderete una pausa dopo questi anni in giro in lungo e in largo per l’Italia o fermi proprio non ci sapete stare? Se ti dicessi che non si programma l’anno successivo mentirei. Nel senso la famiglia Zen conta circa 25 persone tra tecnici, management, casa editoriale quindi c’è sempre un minimo di progettualità, questo ad esempio non è successo per “Il Fuoco in una Stanza” che è venuto fuori grazie ai pezzi scritti via via quindi si è deciso di registrarli e produrli immediatamente, per cui si, effettivamente sono circa due anni che non ci fermiamo. Una volta finito questo tour vediamo, magari mandiamo tutti affanculo, non lo so, sicuramente uscirà qualcosa legato all’anniversario proprio di questo disco e poi probabilmente ci prenderemo un annetto di pausa, un po’ per chi come me ha una famiglia che non vede da mesi e un po’ perché ad un certo punto devi tirare il freno a mano, magari vedersi e suonare in sala prove senza l’obiettivo di un disco a breve o lungo termine, semplicemente per capire che disco vuoi fare e tirare fuori. Sicuramente non siamo il gruppo che ti fa due anni e mezzo di pausa, perché il tour è una parte fondamentale della vita degli Zen, a noi se ci levi il tour moriamo
Nel tuo presente e in ciò che vivi ora, hai capito se il fuoco brucia la stanza o la illumina? Credo che la vita sia impossibile da catalogare in modo semplice, mi sono voluti anni per capirlo. Io credo che la stanza abbia momenti in cui il fuoco corrode e distrugge tutto e momenti in cui illumina di una luce molto bella. L’uomo, inteso in senso antropologico, ha bisogno di conoscere il dolore. Una persona che non conosce il dolore e il disagio non potrà mai fare una vita tranquilla perché, prima o poi ti ci dovrai confrontare. Credo che ci sia il bisogno di un fuoco distruttore così come uno che riesca ad illuminare, perché non può esistere il secondo senza il primo. Il concetto di dolore e di sofferenza penso che sia legato in modo indissolubile all’esistenza umana e alle esperienze della vita. L’album rappresenta in toto tutto questo e quello che amo di più è proprio che racchiude in se lo Yin e yang. Il problema che sto vedendo ultimamente, è che non riusciamo più a godere del fuoco che illumina, perché c’è una totale incapacità di gestire il dolore legato alla repressione e alla gestione delle emozioni e dei sentimenti. C’è una mancanza di capacità di immagazzinare il dolore che è una parte fondante della nostra vita e questa cosa mi fa paura, soprattutto per le nuove generazioni che non riescono a capire il senso cattolico di questa cosa qui, che si sia anticlericali, agnostici o atei è insito in noi. L’imprinting legato al concetto di dolore legato alle nostre vite e su cui si fonda per certi versi la società italiana e nella storia del nostro Paese, che troviamo nella storia italiana delle due guerre mondiali o nella resistenza o nel periodo del terrorismo. L’Italia ha una storia molto particolare legata al dolore, alla sofferenza e alla rinascita, è un Paese che ha avuto mille periodi di rinascita come nessun altro in Europa. I nostri nonni e i nostri genitori questa cosa qui ce l’avevano, perché hanno vissuto difficoltà oggettive, noi no. Non abbiamo mai vissuto delle difficoltà vere e oggettive scisse dai problemi personali legati al lato psicologico, non abbiamo mai visto una guerra né visto il sangue scorrere per strada e questo volente o nolente va a riversarsi su quella che è la nostra vita di tutti i giorni quando ci troviamo davanti ad una difficoltà spesso non riusciamo a gestirla perché le problematiche che viviamo sono connesse ad altro rispetto a quelle di natura primordiale, come la mancanza di cibo o la paura di morire. Farò un discorso generalista, ma credo che chi ha vissuto in situazioni di reale difficoltà ha dentro di se un seme che gli ha fatto e gli fa affrontare la vita e i problemi in modo completamente diverso… Non voglio dire che prima si stava meglio perché è una cazzata gigantesca, dico solo che vedo le nuove generazioni, e ci metto in mezzo anche la mia, completamente impreparate alla gestione del dolore e questo è un qualcosa che ti indebolisce e che poi ti porta a non sapere gestire quel dualismo tra il fuoco che brucia la stanza e il fuoco che illumina
Articolo del
19/04/2018 -
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