Un progetto nuovo, accattivante che fonde interplay, sperimentazione e ricerca sonora. In questo modo si potrebbero riassumere le caratteristiche di Drops, ultimo disco del chitarrista Marco Acquarelli che si discosta in maniera netta dalle precedenti produzioni discografiche. In questa formazione rientrano musicisti di grande talento quali Daniele Tittarelli al sax, Fabio Sasso alla batteria e Francesco Ponticelli al basso. Una nuova avventura, dunque, che Marco Acquarelli ha descritto ad Extra Music Magazine
Marco partiamo dal titolo del disco, Drops (in italiano si traduce con “Gocce”). Cosa ha ispirato questo titolo? Ha un significato particolare per questo tuo progetto? In realtà molti dei brani scritti per questo progetto sono nati senza titolo, non tutti ma Drops era uno di questi, non ricordo bene come sono arrivato a questo titolo ma quando ci ho pensato mi è piaciuto ed è diventato anche il titolo del disco. Devo migliorare da questo punto di vista perché i titoli sono importanti anche se non ci sono le parole nei pezzi…
Rispetto ai precedenti dischi, decisamente orientati verso un jazz più mainstream, Drops appare diverso. Cosa è cambiato in questo ultimo lavoro? Il materiale di studio su cui mi sono concentrato negli ultimi anni ha prodotto un cambiamento, alcuni dei pezzi sono originati da studi su differenti aspetti che, anche grazie all’aiuto del gruppo, si sono condensati in brani. Non significa che rinnego quello che ho fatto prima o che determinate cose non mi interessino più, credo faccia semplicemente parte del mio percorso di evoluzione come musicista
Potremmo dire, dunque, che con Drops stai esplorando una nuova via (se così possiamo definirla) di comporre più orientata alla composizione? La composizione è per me l’aspetto più difficile, faticoso ed allo stesso tempo gratificante dello studio, va praticata come qualsiasi altra abilità. Per avere un buon brano a me, come credo a molti altri, non basta avere una buona idea, bisogna imparare come lavorarci sopra per ottenere qualcosa che possa funzionare come composizione ed allo stesso tempo farne un buon veicolo per l’improvvisazione. Quando riesce è una soddisfazione ma non tutte le idee nel mio caso si trasformano in brani completi
Per quanto riguarda la scelta dei musicisti, invece, in questo disco abbiamo Francesco Ponticelli, Fabio Sasso e Daniele Tittarelli. Una scelta che ci sembra non casuale… Con Daniele siamo amici da quasi vent’anni, abbiamo condiviso molte esperienze e per me è stato sempre un punto di riferimento ma non avevamo mai registrato insieme, quando ho deciso che avrei avuto un gruppo senza piano non ho avuto dubbi che Daniele sarebbe stato perfetto, anche per il contributo che sa dare in generale all’evoluzione della musica, per chi si intende di calcio è un po’ come quei grandi centrocampisti che quando hanno la palla fra i piedi mettono ordine, sanno sempre quando accelerare o rallentare e a chi dare la palla e tutta la squadra gira meglio. Con Francesco avevamo condiviso un’ esperienza anni prima e poi più nulla, quando mi sono confrontato con Fabio su chi potesse essere il bassista adatto non abbiamo avuto dubbi, oltre che esperto bassista è anche un ottimo arrangiatore e compositore e per me questo è stato fondamentale per il contributo delle sue idee sulla mia musica. Con Fabio essendo più giovane abbiamo condiviso esperienze più recenti soprattutto nel periodo in cui stavo scivendo i brani, è stato spontaneo pensare a lui. Sono tutti musicisti molto forti che sanno sempre mettersi a disposizione della musica, è un vero onore che averli a disposizione
In “Drops” troviamo anche suoni elettronici: quanto è importante questo elemento nel jazz moderno e quali saranno, secondo te gli sviluppi di questa unione? Credo che il jazz sia sempre stato permeabile rispetto agli altri linguaggi per diversi motivi, uno è la curiosità dei musicisti verso altre cose, un altro è la curiosità degli altri verso i musicisti di jazz, spesso coinvolti in situazioni diverse in cui sperimentano cose nuove. L’elettronica, da una quarantina d’anni a questa parte è progressivamente entrata a far parte di espressioni musicali sempre più popolari, si pensi alle esperienze della musica concreta francese degli anni settanta fino ad arrivare a Bjork o Imogen Heap, molti considerano, non a torto secondo me, l’Hip Hop il nuovo blues. Nel caso di “Avanguardia” il brano si prestava ad un trattamento del genere già dalle prove e visto che nessuna delle esecuzioni acustiche registrate nell’unica sessione che abbiamo fatto ci piaceva veramente, abbiamo deciso di usare noi stessi come campioni da rielaborare, c’è anche la voce di Massimo Urbani nel bridge, ci siamo rimboccati le maniche io e Fabio il cui contributo è stato fondamentale, sia creativamente che tecnicamente. Gli interventi su Romantico Triste, a parte le tastiere, sono tutti suoi. Abbiamo impiegato più ore davanti al computer per quei due brani che per registrare tutto il disco! Rimango dell’opinione che avere infinite possibilità è come non averne nessuna, gli strumenti musicali sono limitati, è questo che ci consente di distinguerli, di sceglierli, di inventarne di nuovi, il computer è per eccellenza invece lo strumento dalle possibilità infinite ed è per me una vera sfida averci a che fare, proprio perché mette alla prova la mia capacità di avere chiaro in mente l’obiettivo, di individuare la strada da seguire, senza disperdersi
I musicisti che hanno preso parte a Drops, provengono tutti dall’Agus Collective, raccontaci questa esperienza e quanto è stata importante per la tua formazione musicale? Non esito a definirla come la più importante di tutte, quando unisci le tue energie a quelle di persone a cui vuoi bene, che conosci da anni e con cui hai condiviso gran parte della tua esperienza musicale, che stimi umanamente e professionalmente, per fare ciò che ti piace di più cioè suonare ed ascoltare musica, a prescindere dal “successo” dell’operazione in termini di impatto sul pubblico e sull’ambiente musicale, quello che ne risulta non può non essere di importanza fondamentale. Nacque ormai diversi anni fa da un esigenza di azione in un periodo di depressione culturale e professionale ma oggi è qualcosa di più di questo, una giovane è brava musicista che frequenta i nostri concerti un giorno mi ha detto di far parte di quella che lei considera la “generazione Agus”, quella che ha formato la propria cultura musicale, la propria visione della musica anche grazie ai nostri eventi, è una cosa che mi ha colpito molto e che credo mi riguardi non solo come attore direttamente coinvolto nel processo ma anche come fruitore, forma anche me in entrambi gli aspetti.
Qual è stato il tuo percorso personale da musicista e come sei arrivato ad essere l’artista di adesso? Michael Jackson credo sia stato uno degli artisti che mi ha avvicinato alla musica, intorno ai 10 anni ho consumato le cassette di Thriller e Bad ma ancora non ero interessato a suonare uno strumento, è stato dopo la scoperta del rock, Angus Young, Mark Knopfler, Jimi Hendrix ed Eric Clapton che mi sono interessato alla chitarra, ne avevo una di mio padre a casa ma lui non sapeva veramente suonarla quindi mi sono cercato un insegnante con cui ho iniziato a studiare seriamente la chitarra classica, che nonostante all’inizio non c’entrasse nulla con quello che ascoltavo non ho più abbandonato. L’unico vero esperto di musica in famiglia era mio nonno, da cui ho ereditato una bella collezione di vinile di musica classica e lirica ma anche jazz, lui, come del resto tutta la mia famiglia, mi ha sempre sostenuto ed incoraggiato negli studi. In primo liceo avevo già una chitarra elettrica regalata, fra l’altro, a mio fratello non a me, non sapevo suonarla un granchè ma è bastato per entrare in un gruppo di ragazzi più grandi, da quel momento ho iniziato a maturare l’idea che quella fosse l’unica cosa che mi interessava veramente. Il jazz è arrivato qualche anno più tardi, venne a scuola un gruppo di esperti musicisti romani a tenere una lezione concerto sul jazz, nel gruppo non c’era la chitarra ma rimasi affascinato, non solo dalla musica in se ma dall’idea dell’improvvisazione, dalle figure di quegli artisti così diversi sia dai solisti classici che dai musicisti rock a cui ero abituato, anche se non capivo ancora cosa facessero di preciso era interessantissimo e volevo impararlo. C’è un etica alla base del jazz in cui credo profondamente e che riguarda l’autenticità, l’equità, la collaborazione, la ricerca, l’indipendenza di pensiero e che in quel periodo della mia vita mi ha veramente radicalizzato! Per diversi anni ho ascoltato per ore e ore tutto quello che potevo in quell’ambito. Ho iniziato ascoltando i maestri, non solo chitarristi, tiravo giù dalle cassette e dai CD un sacco di cose anche se non capivo ancora cosa farci poi con gli anni, lo studio, l’aiuto di insegnanti e musicisti più esperti con cui ho condiviso esperienze, il resto è venuto da se
Chiudiamo parlando del futuro: prossimi progetti e prossimi live: cosa bolle in pentola? E’ un periodo in cui trovare spazi per esibirsi con progetti originali è molto difficile, almeno per me, sto promuovendo il CD con l’aiuto di Carlo Cammarella, abbiamo fatto qualche data ma è non è facile programmare qualcosa di veramente concreto. Sto scrivendo un altro libro, stavolta in collaborazione con uno dei miei colleghi ed amici più cari, Enrico Bracco, che stimo moltissimo e considero un riferimento. Insegno, come faccio ormai da molti anni e faccio il papà
Grazie e in bocca al lupo per il futuro! Grazie a voi
Articolo del
28/03/2018 -
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