Il 1 giugno del 1967 usciva Sergeant Pepper’s lonely hearts club band che oggi compie 50 anni. In un appassionato articolo in tre puntate, Marco Di Pasquale ripercorre la genesi e i significati di questa opera (terza ed ultima parte, su Extra! Music Magazine sono disponibili i primi due articoli)
Altro capolavoro è invece When I’m sixty-four, scritta da McCartney, ma come sempre accreditata a lui e John Lennon. Ed è il momento migliore tra le sue composizioni, eccettuando il disegno di tutto l’album in generale.
Apparentemente semplice, e forse armonicamente lo è, When I’m sixty four si regge su una canzone che non c’è, ma è abbozzata da clarinetto, basso e batteria; saranno poi dei cori magniloquenti a dare uniformità alle parti in cui il pezzo sembra aprirsi a riflessioni che sono tutt’altro che profonde. Ma cosa ci dovrebbe essere di profondo oltre alla vita stessa, alla condivisione dei momenti di sconforto. McCartney scrisse questo pezzo all’inizio della carriera dei Beatles, quasi come riempitivo. Forse è per questo che la sua freschezza si fa sentire: verrai a trovarmi quando sarò vecchio? Sembra un tema normale, eppure la semplicità della richiesta cozza con l’indicazione di un’età precisa. Ed è appunto la musica che rende il tutto confezionato in maniera stupefacente, riascoltabile a ripetizione. Da qui nasce un filone che ancora una volta sfocerà nel progressive e nella canzone rock d’arte, un filone quasi nobile, ottocentesco, da recupero di una canzone vaudeville, che è un’altra delle ispirazioni per McCartney qui.
Da ascoltare è Isn’t quiet and cold? dei Gentle Giant, un pezzo ben più complesso armonicamente, ma che trova la sua giustificazione rock proprio qui. Anche per i cori magniloquenti che abbiamo detto i Gentle Giant trovarono ispirazione da queste parti, ispirazione che poi sfocia in quella dei Queen: se si vuole trovare un processo di concepimento per Bohemian rhapsody è probabilmente da qui che partirei, anche se poi i Queen inscenano un vero e proprio dramma, come se il quotidiano si spostasse sul pubblico e non sulla semplice canzoncina che canta la Band dei Cuori Solitari.
Ultimo passo della parte centrale, e il passo più falso dell’album, ma insomma nessuno è perfetto: Lovely Rita sembra uscita da un album dei primi Beatles e scaraventata qui perché non sapevano cosa metterci. La melodia della strofa è banale, ma quando si arriva poi al ritornello sfociamo in un infantilismo che non ha niente di poetico come quello di Hello goodbye, ma ha di elementarità da analfabeti musicali, per non essere troppo cattivi. Racconta di quest’amorevole Rita, che a quanto pare nasceva invece come la descrizione di un vigile urbano odioso e che sarebbe stato sicuramente più divertente; ha la sua unica dote nel preparare a un finale scoppiettante, e questa è tutt’altro che un’offesa: il gallo che canta con cui comincia la canzone successiva sembra risvegliare da un torpore mentale in cui ci aveva indotto la canzone, e forse tutta l’esecuzione della Band; è il momento del risveglio per poter poi meditare, e non addormentarsi; si riparte per lasciare il mondo, e il fastidio espresso nella canzone successiva sarà l’ultima goccia che fa traboccare il vaso del materialismo.
Inizia così il trittico finale con Good morning good morning. Spiegare la condizione psicologica della canzone non è facile: è quel fastidio che si prova quando ci si trova troppo a contatto con una società ipocrita, fatta di sorrisini e famigliole felici, ma che nascondono dietro vuoto di pensiero e routine ossessionanti: «I’ve got nothing to say but It’s ok, good morning!». C’è una casualità per noi italiani: la canzone era un chiaro riferimento a una pubblicità della Kellogg’s, in cui una famiglia felice si svegliava e faceva colazione con i cereali ben noti; forse perché in Italia negli anni ’60 non si mangiavano assolutamente i cereali e quindi non c’erano le pubblicità, la Kellogg’s ha riciclato la sua idea e l’ha riproposta nelle nostre televisioni dopo il 2000, per cui quando ero più giovane e ascoltavo quest’album, ero perfettamente in sintonia con la canzone di John Lennon. Pare (e dico così perché non ricordo dove l’ho letto) ci sia stato anche uno scontro legale per la questione, con relativo patteggiamento da parte del gruppo al fine di evitare guai con il ritardo dell’uscita dell’album.
C’è sempre spazio per lucrare sui pacifisti. In ogni caso la canzone è divertente, semioticamente pregnante, mimetica nel suo fastidio verso la borghesia. Si incastra perfettamente alla fine del repertorio della Band dei Cuori Solitari, perché rappresenta il risveglio totale dell’individuo calato nella realtà, che comincia a provare disgusto per la società materialistica che lo circonda. In questo senso la canzone rappresenta tutto ciò che di positivo manca a Within you without you, la quale era una predica snob dall’alto della sua musica indiana ma anche pop con un pizzico di ipocrisia. Good morning… tutt’altro: gli animali sono già una presa in giro della rappresentazione estremamente mimetica che stava intrattenendo il rock, e penso ad esempio ai primi Pink Floyd: sembra quasi che la tradizione che instaureranno Waters e compagni sia passata, e si sia giunti già alla parodia. Il ritmo della canzone che sembra cadere ad ogni battuta, e alla fine del ritornello, come se non si fosse ancora abbastanza svegli per parlare o stare in piedi, si staglia su un impatto sonoro fatto di fiati ingombranti, come se fosse latte che straborda da una tazza piena di cereali. E l’assolo di chitarra elettrica è poi la ciliegina sulla torta: è il tentativo di rappresentare con la musica quel che dice la canzone, e nel suo imitare anche timbricamente il fastidio, è uno di quei tasselli che contribuiscono a creare il rock: da qui, dai Led Zeppelin, da Helter skelter sempre dei Beatles, dagli assoli di Syd Barrett e da molto altro ancora, scaturisce il potere significante dello strumento per eccellenza nel genere rock; quello che non si può dire con le parole, lo si dice con la musica. I versi finali degli animali confluiscono direttamente nella traccia successiva, dove però la gallina diventa chitarra: è il passaggio estremo tra i due livelli, il concerto vero e proprio e la fine di esso, quindi il passaggio dal Livello 3 al 2, e per certificarlo il verso della gallina diventa chitarra nella traccia successiva, come a voler suggellare tutto ciò che è stato ascoltato come musica e basta, non realtà quindi, ma musica che rappresenta la realtà materialistica.
E quindi si passa a Sergeant Pepper’s lonely hearts club band reprise, che manifestamente si trova nel Livello 2, e rappresenta la diretta conclusione del concerto della band; tutto quello che rimarrà fuori sarà quanto di meno ironico ci sia. Il testo e la musica sono totalmente funzionali al momento, e anche la cronaca racconta di un concepimento a tavolino del pezzo, prima del gran finale. Il gran finale è la canzone più discussa e probabilmente più bella dei Beatles: A day in the life. Numerosi critici, come il grande Ian McDonald, si sono affannati per dimostrare che la canzone non c’entra nulla con l’album ed è stata composta prima e giustapposta poi alla fine dell’album, ma che comunque non c’entra niente con il concept. Ma se avete seguito il discorso, proprio il suo essere al di fuori del concept ne è la più pregnante e collegata conclusione: dopo un completo alienamento dal mondo moderno, in un concerto che rappresenta un’ascesi e una discesa dell’ascesi da essa, il punto focale del discorso si sposta su quello che succede nella vita reale, e su come questa cosa possa influenzare l’io.
Non si abbandona poi il momento dell’ascesi mistica, rappresentata dal famoso crescendo che per due volte compare nella canzone. “La soluzione dei problemi del mondo è dentro di sé”: è il motto molto semplificato della filosofia buddista, e delle filosofie orientali in generali. Ecco che quindi la canzone rappresenta un’immersione nel mondo reale coi suoi problemi che ci riguardano da vicino, che interessano il nostro microcosmo, con la loro portata tragica estrema per noi: in questo caso la morte di un ragazzo, che fa ridere l’io per non piangere, e sappiamo che a Livello 0 questo è il racconto di un incidente mortale in cui è stato coinvolto un amico dei Beatles, ma come sempre il Livello 0 non è poi così interessante, e serve giusto per coinvolgere di più l’emozione della voce strozzata di John Lennon in un canto toccante. La grana della voce in questa canzone ha del sensazionale: è graffiante da rock nonostante sia commossa dalla compassione per il dolore del mondo, ed è quella che diventerà la voce combattente di Lennon negli anni a venire, una voce che è la versione gandhiana in musica. E infatti l’argomento successivo è al contrario del primo lontano per l’io (lo vede addirittura in un film) ma importante per il mondo, ovvero la guerra, a cui tutti sembrano indifferenti ma che l’io vuole vedere e ascoltare.
Ecco i due aspetti della compassione, quello personale ma particolare, quello universale e per questo universale nel senso filosofico. Poi la famosa frase «I’d love to turn you on», che fa da contraltare a quella di Ringo Starr nel secondo pezzo «What do you see when you turn off the light? / I can’t tell you but I know it’s mine», anche per la ripresa linguistica della parola vaga e ambigua “turn”, è il trampolino che porta all’ascesi, come in With a little help… era la descrizione dell’ascesi stessa. Dopo il crescendo orchestrale ecco apparire Paul McCartney con una grana della voce totalmente diversa, piatta si potrebbe dire, quasi didascalica: descrive azioni di routine, con la fretta che si instaura nella vita quotidiana e impedisce la riflessione su se stessi, impedisce la meditazione. Ma questo è “un giorno nella vita”, e anche questo accade nella vita reale. L’analisi di questa sintesi sulla fretta, la si può riscontrare nell’inizio di The dark side of the moon dei Pink Floyd, nel trittico di canzoni Breathe, On the run e Time (che non a caso si conclude con una parte chiamata Breath reprise): lì, in estrema sintesi, l’io, che nella parte iniziale di rumori è entrato finalmente in meditazione, viene strappato all’ascesi per colpa della fretta quotidiana, per poi riacquistare un dialogo con il tempo, e quindi poter tornare nella condizione sperata, per poi proseguire un discorso molto più complesso.
Qui accade più o meno la stessa cosa, ma anziché buttarla sul discorso del tempo, John Lennon si concentra sul ruolo della realtà che incombe. Infatti dopo l’immersione nella routine, McCartney si congeda con il verso «Somebody spoke and I went into a dream»; seguono dei vocalizzi che diventano inframmezzi orchestrali, ma la realtà incombe, e se non si dice la formula magica del “turn”, non solo incombe ma diventa ridicola nel suo estremo riferimento alla realtà, e sui giornali o al cinema non ci sono più notizie di tragici lutti personali o di guerre universali: «Ho letto sui giornali che ci sono quattromila buche a Blackburn, nel Lancashire. E anche se i buchi sono piccoli, li hanno dovuti contare, e ora sanno quante buche ci servono per riempire l’Albert Hall». Il ridicolo ha preso piede, e l’unica cosa che conta adesso è abbandonare di nuovo la realtà con la formula magica e il crescendo. Nel finale il MI maggiore suonato sul pianoforte può essere simbolo di ciò che si vuole, e a seconda della nostra fiducia nell’ascesi può essere il nirvana, o può essere un tonfo nel reale. Non sono sicuro su nessuna delle due spiegazioni, ma se devo fare un paragone di nuovo con The dark side of the moon mi viene in mente una cosa: le frasi senza senso e le risate che si sentono alla fine di Sergeant Pepper’s sono un ritorno alla realtà che ci dev’essere per forza, come uno schiocco di dita da un’ipnosi, perché non ci può essere condizionamento da parte di altri, ovvero la meditazione è personale e l’ascesi pure; stessa cosa avviene alla fine dell’album dei Pink Floyd, quando dopo il culmine spirituale di Eclipse, si sente il cuore palpitante dell’inizio e un voce che ha lo stesso scopo di quelle risa e canti dei Beatles «There’s no dark side of the moon really: matter of fact it’s all dark». È mettere in ridicolo l’intero processo per non dover prendersi troppo sul serio, per non scadere nell’imbarazzante contraddizione del materialista che potrebbe asserire di non sentire nessuna spiritualità; ed ecco che i Beatles, così come i Pink Floyd 6 anni dopo, ci dicono che è solo un album quello che sentiamo, e che se vogliamo la vera ascesi dobbiamo trovarla da soli. Ecco perché protendo per un’interpretazione positiva di quel MI maggiore, proprio perché le successive risate sono lì per sminuirne il significato.
Il primo concept album rock della storia si chiude così, ed entra subito nell’immaginario collettivo sonoro, e anche iconico grazie alla famosa copertina pregna di significati e di personaggi, a cui farà il verso anche un mordace Frank Zappa con We’re only in it for the money. Sopravvalutata forse questa copertina, probabilmente rappresenta semplicemente il pubblico che assiste alla performance della Band dei Cuori Solitari, pubblico che include anche gli stessi Beatles, dei giovani Beatles, che confermano i vari livelli di realtà del gioco.
Se c’è un significato all’intera opera probabilmente non era stato programmato dal gruppo, ma comunque un senso scaturisce nello scontro tra i vari piani di una realtà che sta stretta se non è spirituale. La dimensione allegorica tipica di certa canzone rock precedente lascia spazio ad una vera e propria opera, che può vantare una struttura e una formula efficace nel suo addensarsi intorno a ciò che rimangono pur sempre canzoni a sé stanti, tranne naturalmente le eponime dell’album. La cornice insomma non intacca la proliferazione di significati di ogni singolo brano, e anzi, ed è per questo che è veramente il primo concept album, riceve senso dal macrotesto e a sua volta contribuisce a costruirlo. Detto in altro modo: sono le canzoni con il loro piccolo valore a costruire tutta l’opera, che a sua volta con la sua presenza amplifica il valore di ogni canzone, che quindi ne restituisce uno nuovo in quel contesto: è ciò che spero di avervi umilmente illustrato
Articolo del
01/06/2017 -
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