“Il nome di un pianeta, ma anche semplicemente la nostra terra, il nostro paese d’origine, l’urlo dei naviganti quando vedono all’orizzonte un elemento naturale”: è così che Vasco Brondi alias Le Luci della Centrale Elettrica ha spiegato il titolo del suo quarto album TERRA, in occasione della nostra conversazione, svoltasi durante una pausa dalle prove del tour che ha preso avvio il 16 marzo a Pordenone e che via via toccherà tutta l’Italia.
Rispetto al precedente COSTELLAZIONI, TERRA ha un sound più scarno oltre che, in qualche misura, “etnico”. Come mai questa scelta in controtendenza, in un momento in cui i tuoi contemporanei (gruppi e cantautori) stanno virando verso il pop e verso il beat?
Sai, in parte il mio metodo di lavoro – che forse è diventato davvero un metodo di lavoro – consiste nel non guardare quello che fanno gli altri. Non mi sento di consigliarlo agli altri, però io non mi perdo dietro agli ascolti delle ultime cose uscite. Alla fine non mi interessa, io ascolto sempre le stesse cinque cose che ho sempre ascoltato. Magari quello che influenza la mia musica non è neanche musica. L’unica [domanda] che mi ero posto nel fare questo disco era: “che musica c’è come colonna sonora nelle nostre città?” Mi piaceva quest’idea di parlare (anche) attraverso la musica dell’identità italiana in transizione: insomma, di questa nostra etnia immaginaria – o contemporanea, per meglio dire – che è quella italiana di adesso. E la musica che c’è, quindi, è il modo (filologicamente sbagliato) in cui si mischiano le culture che si incontrano, che sia una musica melodica emiliana piuttosto che i tamburi africani piuttosto che la techno araba, o canti religiosi o distorsioni. Volevo un disco che fosse come una cartolina spedita da me dal posto in cui sono a qualcuno che non ne sa niente. A qualcuno, magari, nello spazio. E quindi mi è venuto in realtà naturale lavorare su questo tipo di musica.
Ma non ti ha influenzato nessuno specifico disco o artista durante la lavorazione dell’album?
Come ti dicevo le cose che ascolto sono rimaste più o meno quelle: i CCCP, CSI, De Gregori, Battiato. Però in questi anni ho ascoltato moltissimo musiche – anche insieme a [Federico Dragogna, il produttore], lavorando su questo disco – che venivano da altri continenti e da altri posti. I Tinariwen, senz’altro, e poi anche cose che in realtà non sono molto conosciute. Poi mi è piaciuto moltissimo il lavoro che fa Enzo Avitabile. L’ho scoperto abbastanza tardi, due dischi fa con BLACK TARANTELLA, e lo trovo incredibile. Lo trovo completamente outsider nella musica che capita di sentire, mi ha davvero colpito moltissimo. Non credo che sia entrato molto di quello che fa lui nel mio lavoro, però per me è stato importante sentire una libertà di quel tipo nello scrivere e nel cantare.
E’ il secondo disco di fila con Federico Dragogna dei Ministri come produttore. Sono curioso di capire che tipo di interazione esiste tra di voi. Lui ti aiuta nella composizione o solo nella scelta dei suoni?
Con Fede su questo disco abbiamo lavorato in modo molto diverso da COSTELLAZIONI. Su COSTELLAZIONI in realtà tutti i pezzi erano già pronti e già fatti da me, e poi assieme gli abbiamo dato una veste musicale espandendo quello che già c’era. Invece forse per questo disco…sì, sono sempre partito da canzoni che avevo scritto col piano, con la chitarra, con una ritmica…però per esempio un paio di pezzi invece mi sono arrivate da subito delle musiche di Fede a cui abbiamo poi lavorato assieme. Quindi, dopo ho lavorato sul testo e abbiamo cambiato un po’ di cose. In generale forse è stato ancora più di squadra tra me e lui. Cioè, pensavo a un suono diverso rispetto al precedente ma avevo già capito che comunque non avrei dovuto cambiare la persona con cui lavorare. Perché sapevo che con lui era fattibile. Lui è uno molto “perspicace”, non so come dire. Ci capiamo molto bene anche nella vita. Questo è stato assolutamente fondamentale, ecco.
Alcune canzoni sembrano quasi un reportage dal 2017 in cui parli di Siria, di terrorismo, di immigrazione e di crisi economica, con toni a volte apocalittici.
Ma no, non credo. Credo che questo sia un disco di contraddizioni, di cortocircuiti. In questo disco, come poi nella realtà che ci circonda, c’è tutto il bene del mondo e tutto il male del mondo. Ovviamente si fanno notare di più quelle parole che si possono riferire a eventi più “difficili”. Però comunque c’è dentro tutto: ci sono l’amore e la guerra, sono queste le cose che mi interessano. Ma penso che non sia assolutamente apocalittico. Penso che di apocalittico ci siano le forme di intrattenimento attuale, che sono quella cronaca nera che è diventata intrattenimento, comprese tutte quelle serie televisive che sono solo violenza, a cui il nostro sistema immunitario non risponde neanche più. Anzi: ci piace e ci intrattiene vedere sangue e violenza nei giornali e nelle serie televisive. In confronto le mie canzoni sono veramente delle filastrocche.
Non trovi che sia un momento importante per il cantautorato italiano? Dopo tanti anni finalmente la vecchia guardia – anche per raggiunti limiti di età – sta lasciando il passo a una nuova generazione di autori, di cui tu fai peraltro parte, ne sei all’avanguardia.
Credo di sì. Da una parte penso che sia per una questione degli autori stessi, che probabilmente scrivono qualcosa che è “sentito” e che senza paura lo fanno uscire all’aria aperta, senza quell’eco degli anni 90, dove c’era la paura di uscire da un circolino protetto che era quello del mondo alternativo. Perché prima c’è stato un decennio di una scena suicida, da cui era impossibile uscire. Io fortunatamente sono arrivato dopo. Dall’altra credo che siano cambiati completamente gli standard del mondo mainstream e delle radio. Perché uno come Brunori non è che si mette lì a pensare: “chissà come deve essere fatto un disco o un singolo per andare in radio”. Perché chiaramente il suo suono è rimasto il suo suono. E fortunatamente anche il mondo standardizzato delle radio sta un po’ cambiando. Perché le persone vogliono ascoltare quella roba lì. Cioè, noi siamo gente che da dieci anni facciamo migliaia di persone nei concerti, ogni sera. Il seguito in realtà c’è: si sta semplicemente chiudendo la forbice tra il mondo reale e il mondo mediatico. Credo che finalmente stia succedendo. E che sia possibile adesso fare una cosa seguendo un percorso personale profondo - anche sperimentale, se vuoi - però anche essere popolari allo stesso tempo, senza nascondersi.
E questo non ti crea anche pressione?
Credo che se uno cedesse alle pressioni non potrebbe fare nessun lavoro in cui espone quello che fa. Probabilmente neanche il cuoco. E quindi credo che ognuno trovi dei modi per conviverci. Per me il modo è lavorare quotidianamente con impegno, mettersi a fare quello che ci si sente di fare. Questo aiuta molto.
Ora stai partendo in tour: che tipo di spettacolo si deve aspettare chi verrà a vederti? E’ uno spettacolo secondo me essenziale. Cioè, basato moltissimo sul fare tantissime prove per riuscire a portare questo disco dal vivo in modo molto diretto. Quindi basato sulle ritmiche come sul Groove, senza mettere niente in base. Tutto suonato lì, direttamente. Non c’è niente che non esca dalle mani di qualcuno che è sul palco. E l’approccio in realtà sarà comunque tra quello di una band anche rock and roll – se possiamo così dire – che però affronta questo repertorio, cioè queste ritmiche che non sono i 4/4 o queste scale che vengono da altri mondi, rielaborato da noi. Però molto diretto. Ognuno è molto esposto, ecco. Abbiamo fatto molto lavoro per esempio sui cori che nel disco abbiamo fatto molto sulle doppie voci, su certe armonizzazioni, e anche questo mi piace moltissimo di come sta venendo il concerto. Però è un concerto davvero “in faccia”, dove tutti siamo incredibilmente esposti. E questo ci farà stare secondo me bene sul palco, molto presenti. E credo che poi anche le persone che vengono lì saranno contente di vedere un concerto di questo tipo. Cioè, da un certo punto di vista, enorme, fatto per gli spazi grandi, però comunque anche minimale. Cioè proprio quello che serve, essenziale.
Chi suonerà con te?
Matteo Bennici al basso, con cui avevo già fatto il tour di FIRMAMENTO, il disco precedente. Poi ci sarà Marco Ulcigrai alla chitarra, Giusto Correnti alla batteria e Angelo Trabace a sintetizzatori e pianoforte.
Domanda finale obbligatoria: alla fine, cosa pensi che resterà di questi “cazzo di anni 10” (per parafrasare un’espressione da te coniata)?
Mah, credo che oggi il mondo musicale sia talmente vario - così come la realtà - che esiste solo il racconto personale. Penso che sia difficile adesso fare dei testi come magari c’erano negli anni 70, quando una canzone di 3 minuti riusciva a racchiudere un decennio. Io penso che ognuno avrà la sua colonna sonora personale, adesso.
Articolo del
22/03/2017 -
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