Cantante e songwriter poliedrica, capace di spaziare a piacimento tra rhythm’n’blues, rock e jazz, Rickie Lee Jones emerse nella scena bohemién di L.A. degli anni 70 a braccetto con Tom Waits, all’epoca suo boyfriend e mentore. Resta memorabile il suo primo Lp del ’79, come anche la copertina che la ritraeva in una posa da beatnik fatale col basco rosso in testa. Dopo qualche anno di pausa la Jones si è rifatta viva con un nuovo album, THE OTHER SIDE OF DESIRE, scritto e registrato a New Orleans, dove ha di recente traslocato.
Rickie, è bellissimo ritrovarti con un album tutto composto da canzoni originali. L’ultima volta era stato nel 2009 con BALM IN GILEAD ma stavolta sono tutti brani scritti di tuo pugno. Da cosa dipende questa tua nuova improvvisa ispirazione?
Credo che sia dipeso da questa mia nuova vita, qui a New Orleans. Per molto tempo sono stata più interessata a scrivere di cose che vedevo o leggevo o comunque di cose che erano al di fuori del mio corpo, piuttosto che all’interno. Ma adesso sono il mio spirito, il mio bisogno di una nuova vita, i soldi, la speranza, queste sono le cose che stanno nutrendo il mio lavoro. E poi questa città incredibile che offre così tanti colori.
E’ vero: negli ultimi due decenni i temi delle tue canzoni avevano una natura più religiosa, e a tratti politica. Ora su THE OTHER SIDE OF DESIRE sei tornata ad affrontare questioni più “carnali”.
Sì, e il mio ritorno a temi e sonorità più “terrene” riflette il mio desiderio di essere parte della terra e del mondo che mi circonda.
Sei sempre stata una sorta di “nomade” durante tutta la tua carriera: da Olympia nello stato di Washington andasti a Los Angeles, poi hai vissuto a New York, a Parigi, di nuovo ad Olympia e adesso New Orleans. Come mai hai scelto di andare a vivere lì?
In passato ho sempre cercato di non essere un mero riflesso della città in cui vivevo. Per esempio: andare a Parigi ma non scrivere una canzone “francese” era una specie di missione… Ma questa volta mi sono lasciata coinvolgere, ho iniziato a introiettare e ad amare quello che vedevo intorno a me e mi sono detta: perché no? Perché non rimandare all’esterno tutto questo attraverso [la mia musica]? Le parate [a New Orleans] sono qualcosa di importante, si tratta di qualcosa di spontaneo che qui avviene continuamente. Le persone si vestono in maschera, suonano musica e sfilano marciando attraverso i vari quartieri. Si può trattare di un gruppetto di ragazzini tatuati con le tube e i banjo, o anche di un vasto ensemble di famiglie di colore che dalle macchine propongono la loro musica attraverso degli altoparlanti… Qualunque cosa sia, è una celebrazione, come dire IO SONO QUI, è un nutrimento per il tuo orecchio ed un’ispirazione per la tua anima. Immagina se improvvisamente ci fossero delle parate per tutto il tempo anche a Roma, se gente di ogni tipo ed età – turchi, siciliani e padani – uscissero per strada e iniziassero a cantare per strada! Intendo proprio ogni giorno, a ogni ora della notte… Perché qui nessuno si lamenta, non c’è nessuno che non accetti, quantomeno, che questo è il modo in cui abbiamo scelto di vivere insieme. “Insieme” è la parola chiave. E tutto questo non può non avere un impatto sul tessuto del [mio] lavoro. [Conferisce] una gioia, una fiducia in se stessi e… uno scintillio qua e là…
New Orleans è anche la città americana in assoluto più “francese”. Il fatto che tu abbia deciso di venire a viverci ha forse anche qualche rapporto col fatto che la Francia è uno dei grandi fili conduttori della tua vita (fidanzati, un marito, tanti anni passati a Parigi e in generale uno stile di vita che si può definire “alla Rive Gauche”)? Alcuni titoli e testi del nuovo album, fra l’altro, sono in francese.
E’ vero che io e la Francia abbiamo una certa storia in comune, e per questo motivo qui posso capire queste cose Cajun senza fare troppi sforzi, anche senza essere francese. A me non importa se la mia pronuncia è scorretta o sbagliata, perché non parlo francese correttamente, e io sono a tutti gli effetti un’americana che canta in francese con amore ed affetto. Questi Cajuns parlano un francese che io riesco a capire. Mi piace perché invece io non riesco a capire molto di ciò che viene detto con l’accento di Parigi. Si sente così tanto francese, qui, ed è pronunciato con l’accento inglese. Un po’ ti disorienta. Tante parole in francese per le strade, ma che tutti pronunciano maniera sbagliata. Io vivo dall’altra parte di Desire [il titolo dell’ultimo disco è appunto The Other Side Of Desire, n.d.a.], una via resa celebre da Tennessee Williams. La Desire è stata chiamata così per via di una donna chiamata Desirèe, e ci sono altre vie dalle mie parti, la Louisa, la Pauline (che cito nel brano Jimmy Choo): tutte queste donne erano le prozie di Louis Michot, il violinista e cantante su Lover’s Oath e Valtz De Mon Père. Mi ha raccontato che la sua famiglia all’epoca era proprietaria di tutta quest’area, chiamata Bywater. Così quando l’ho incontrato e avevo già inserito citazioni di tutti questi suoi lontani parenti nelle mie canzoni, mi ha davvero dato la sensazione che ci fossimo rincontrati nuovamente, come se ci fossimo già conosciuti in precedenza. Come per esempio Lover’s Oath, che è stata ispirata da suo padre… Quello che intendo dire è che mi è impossibile enumerare in quanti modi questa città e le sue ambientazioni sono diventate parte di ciò che avevo già in parte composto. Un altro fil rouge di questo disco, trovo che siano i bar, i motel, le stazioni di servizio, i treni… Rappresentano ancora una grande fonte di ispirazione come all’inizio della tua carriera?
Sì, lo sono ancora. Credo che mi piacciano i luoghi, i nomi delle cose… cose intorno alle quali è possibile costruire una storia. Texaco, Levis, Motel 6, le cose che vedo intorno a me che… non sono belle, ma cose che la gente dà per scontate. Un po’ come gli anni della mia adolescenza, middle class e girovaga... o povera, forse. Credo di avere un’attrazione per queste cose fin dalla mia infanzia.
Mi ha molto colpito la canzone Christmas In New Orleans: sei stata ispirata da due classici natalizi come Christmas Card From A Hooker In Minneapolis di Tom Waits e da Fairytale Of New York dei Pogues e Kirsty McColl o è solo una mia impressione?
Ti confesso che non ho mai sentito la canzone di Tom Waits… o forse se l’ho sentita non me la ricordo. Della canzone dei Pogues mi ero completamente dimenticata finché un tizio non mi ha scritto in proposito, e allora sono andata a ricercarla su Internet e mi sono detta: “Ah, riesco a sentire a quale melodia si riferiscono: la seconda strofa della canzone”. Ma è una melodia che compare in così tante canzoni, così tante canzoni folk drammatiche, che immagino che quella melodia stessa sia… abbia un significato. Il riferimento al Natale è ciò ti porta a fare il paragone [tra i due brani], ma devo dire che l’ho presa in prestito senza rendermene conto. Adoro Fairytale Of New York, ma è un brano molto diverso da Christmas in New Orleans. Ora sarò costretta a sentire la canzone di Tom Waits.. [ride, n.d.r.]. Volevo scrivere una canzone che qualcuno avesse voglia di suonare a Natale, una bar song, una canzone che la gente potesse cantare. La parte in cui parlo della nostra generazione… 'how can I explain a time as crazy as ours'… nella mia mente la vedo come una sorta di montaggio di… Woodstock, la Guerra… i punk-rocker… le morti e le nascite… e la vita che rifiuta di morire. E credo che questo slogan sia valido per ogni generazione: la Greatest Generation [quella che crebbe negli Stati Uniti durante la Grande Depressione e che poi andò a combattere nella Seconda Guerra Mondiale, n.d.r.], i Bobby-Soxers, e quella che sta crescendo adesso… anche loro in futuro parleranno di “un tempo folle come il nostro”. Quindi: capisco i tuoi riferimenti, ma ho la sensazione che Christmas In New Orleans potrà trovare un posto tra le leggende del Natale, o… magari tra le leggende delle passeggiatrici [ride, n.d.r.], o tra le leggende dei tempi duri, o - semplicemente - tra le canzoni di New Orleans. Perché, anche se adoro la melodia, per me questa canzone parla di lasciar andare qualcuno che non lascerai mai, di far pace con qualcuno con cui non farai mai pace, per dirgli: “Vorrei che tu fossi qui, figlio di puttana. Magari tu sei lassù in Paradiso, ma qui da noi a Natale fa calduccio e speriamo che tu possa congelarti dal freddo lassù”. Una specie di affettuoso vaffanculo natalizio.
Nell’immaginazione del tipico rock fan, Rickie Lee Jones sarà per sempre associata a quella specie di trio alla “Jules et Jim” – te, Tom Waits e Chuck E Weiss - al Tropicana, allo Chateau Marmont, a quella scena bohemien della Los Angeles anni 70… Ma quanto di quel periodo è verità e quanto è leggenda?
Non lo so, perché non sono sicuro di ciò a cui ti riferisci. Lui (Waits) viveva in una topaia al Tropicana? Sì. E io ho vissuto per alcuni anni allo Chateau Marmont, certo. Eravamo follemente innamorati? Sì. Andavamo in giro a rubare i nanetti dai giardini della gente? Sì. Adesso, qualche anno dopo quei fatti, puoi mettere una cornice a quel periodo e chiamarlo come vuoi. Ma la verità è che all’epoca eravamo solo un gruppo di persone che non si lavava abbastanza e a cui piaceva la propria puzza.
Ho letto un’intervista in cui ti lamentavi del fatto che nel mondo del Rock, superata una certa età, le donne subiscano una forte discriminazione.
Qui in America tutta la cultura è incentrata sull’essere giovani. Sul sesso e sulla giovinezza.. quasi pedofilia. Vedi queste ragazzine giovanissime con degli atteggiamenti alla “scopami”, nella moda, nella musica e nei film. Io lo trovo così noioso… So che il primo impulso della vita è fare sesso… procreare… ma dobbiamo proprio disonorare le donne in questo modo? E così, le donne più anziane – attrici, musiciste e in generale più in là con l’età – risultano invisibili per molti versi. L’Europa prova un maggiore affetto verso le sue icone, o verso le icone americane. Anche perché certi personaggi come Patti Smith all’epoca non erano proprio reginette di bellezza, quindi il fatto di invecchiare non rappresenta un impedimento per la loro carriera. Patti, anzi, può anche farsi fotografare con un’evidente peluria sopra il labbro e per lei è ancora meglio. Ma se metti un paio di baffi a Stevie Nicks… Stevie non lo permetterebbe mai perché affosserebbe la sua immagine, la sua femminilità e quindi la sua capacità di procurarsi da vivere. (Perché a tutte noi, invecchiando, spuntano dei baffi di qualche colore). La bellezza – e io questo lo capisco – fa parte di ciò che alla gente piace vedere. Qui in America le donne più mature sembrano tutte – o cercano di sembrare – come se avessero trenta o quarant’anni. Io, però, ritengo che l’arco dell’invecchiamento è fantastico. Perdi una cosa ma ne acquisti un’altra, e la gente ha bisogno di saperlo, ha bisogno di vederlo. Hai un po’ di pelle cadente intorno agli occhi, ma un sorriso più sexy. E’ chiaro che – si spera – un sedicenne non si vorrà fare le seghe davanti alla tua foto, ma la donna di 60 anni che ha lavorato tutta la vita alla lavanderia a gettoni si sentirà confortata vedendo che c’è un’icona che le dice “Me e te, tesoro: siamo belle”. Bisogna creare un “effetto domino”. Credo che invecchiando le donne siano gettate ai cani, e c’è bisogno che alcune di noi dicano: “Sì, voglio apparire al meglio, ma il mio meglio è fatto da 60 anni di vita”. Io sono felice di dirlo. E sono sempre sorpresa da quanto sembro vecchia quando mi guardo [allo specchio], perché dentro di noi non invecchiamo affatto, ma cresciamo. Cresciamo di continuo, ma all’esterno invece credo che invecchiamo costantemente.
Negli ultimi quindici anni il music business è cambiato in maniera esponenziale, specialmente dal punto di vista della distribuzione. Puoi dirmi qualcosa della tua etichetta personale, The Other Side Of Desire, e come opera per ottenere il massimo impatto dal punto di vista promozionale?
Ascolta: la prima cosa di cui un artista ha bisogno è un buon ufficio stampa. Il mio distributore è la Thirty Tigers e mi fanno una gran pubblicità in Europa oltre a farmi avere una presenza da voi. Invece molti artisti americani si limitano a sperare che la loro musica in qualche modo riesca ad attraversare l’oceano… Ma a me ha sempre molto divertito l’Europa e il modo diverso [a seconda dei Paesi] in cui rispondono alla pubblicità. E’ diverso, e a me piace questo fatto. L’Italia: così fissata con la politica. La Francia: sempre “intellettuale”. L’Inghilterra, impietosamente sensazionalista. E così via. Io cerco di muovermi con circospezione perché tutte queste nazioni sono abitate da persone. Io non considero le persone come “generazioni” o “”fasce d’età” - tutti questi concetti sono composti da nomi e da individui - ma da un punto di vita culturale tendiamo a oscillare verso sinistra o verso destra – e lo facciamo “insieme”. Al momento la mia etichetta è composta dal mio manager e da una donna brasiliana che fanno tutto il lavoro di inserire le cose nelle buste e mandarle in giro. Ho un distributore, dato che dovuto… - cioè, il mio manager ha dovuto - organizzare la stampa dei dischi, dei Cd, eccetera. Io sono impegnata a fare promozione, poi le foto, le interviste, ecc., pertanto in questo modo siamo una piccola etichetta. Mi piacerebbe far uscire qualcuna delle band locali sull’etichetta, una alla volta… E ho in mente di pubblicare un disco di mia figlia [Charlotte] il prossimo anno con lo stesso entusiasmo che ho per il mio. Lei ha scritto un paio di canzoni davvero notevoli. Ma potrei anche portarla da un’etichetta… un po’ meglio funzionante della mia. La sua musica è molto più “giovane” e ha bisogno di qualcuno che sappia come proporla al pubblico della sua età.
Puoi dirmi qualcosa di più di tua figlia Charlotte? Tu le darai un sacco di consigli, immagino.
Nooo, assolutamente nessun consiglio, lei sa quello che vuole. Lei ha 27 anni e ho sentito la sua musica per la prima volta solo lo scorso anno, non sapevo nemmeno che scrivesse canzoni. Credo che l’abbia tenuto nascosto da me, era un po’ intimidita immagino, o qualcosa del genere. La prima canzone che ho sentito, mi ha lasciata basita, ho accostato la macchina al marciapiede e ho pianto. Era una canzone magnifica, cantata in modo così dolce… Voglio dire, un pezzo che potrebbe cantare Taylor Swift. Una “vera” canzone, ed era la sua prima volta. E’ stato un momento che ha cambiato la vita, sia mia che sua, perché fino a quel momento io non la conoscevo veramente. Perché non sapevo che lei fosse un’artista. Lei è molto riservata, riflessiva, molto ordinata con dei momenti di caos. E’ molto bella, dall’aspetto mediterraneo. Ha i lineamenti del padre e le espressioni della madre. La adoro.
Ti rivedi in qualcuna delle giovani cantanti/cantautrici di oggi? Tempo fa ho letto che eri rimasta intrigata da Amy Winehouse…
C’è una piccola band locale di Lafayette chiamata The Givers, e le ragazze del gruppo sono estimatrici della mia musica. Vedo in loro qualcosa di me. Ma in generale, mentre mi capita di sentire il mio stile o le mie scelte vocali in molte giovani cantanti di oggi, non credo che sappiano chi sono io. Non credo che sia una questione di generi musicali…l’influenza artistica attraversa i generi. Sì, mi piaceva Amy, sentivo una comunanza con lei per via della sua traiettoria, dei suoi problemi personali, delle sue scelte sbagliate in fatto di uomini, e della perfetta comprensione che aveva della sua musica. Sono rimasta sorpresa dalla sua morte, è stato un vero dolore sia per me che per mia figlia. Poco tempo fa a Charlotte ho fatto sentire Bjork quando cantava negli Sugarcubes, in modo che potesse capire da dove ha cominciato quella cantante. Lei ha detto: “Non riesco esattamente a vederci quello che ci vedi tu, tutto quello che sento è che [Bjork] mi ricorda te”. E io ho pensato: “Sì, la prima volta che l’abbiamo vista, io e Walter Becker [degli Steely Dan, produttore di Rickie Lee Jones negli anni 80, n.d.r.], ci accorgemmo che somigliava un po’ a me; il che non vuol dire che mi imitasse, nulla del genere, però… con quella voce da bambina piccola… Ma per via del differente genere musicale, è un paragone che non ha fatto mai nessuno. Credo però oggi sia diffuso un senso della mia impronta… unica… e si sia capito l’impatto dei miei primi dischi su quanto è venuto dopo. E’ lì, c’era. E c’è ancora. Anche se io non vivo più “lì”. Vivo “qui”, adesso. Voglio dire che adoro la band sudafricana Die Antwoord. Mi piace vedere una donna, un’artista il cui senso di sfida e la cui creatività li conduca verso sentieri inesplorati. Questo è quanto condivido con alcuni dei nuovi artisti, non le similitudini nel sound o nel modo di porsi, o il fatto che ci piaccia lo stesso dopobarba, ma i pezzi più grossi del puzzle, e queste cose possono attraversare i limiti di sesso e tempo. Il punto è il coraggio. Non credo che i Die Antwoord abbiano mai sentito parlare di me, ma io ho sentito lei, ed è molto brava. Mia figlia la rispetta molto, cosicché il la vedo attraverso gli occhi di mia figlia e riesco ad apprezzare quello che vedo, e sento.
Ti potremo vedere presto in Italia? Manchi dal 2007, sarebbe ora di tornare.
Quest’anno credo di no. In realtà ho sempre fatto dei concerti piuttosto scadenti da voi. Ed è una cosa strana, perché l’Italia è l’unico Paese che mi abbia dato un qualche riconoscimento: il Premio Tenco nel 2000, l’unico premio della mia carriera. Tengo quella statuetta sopra al mio pianoforte. Ma per quanto riguarda i concerti, mah… c’è sempre stato qualcosa che è andato storto. Chissà, però, forse tornerò il prossimo anno…
Articolo del
09/02/2017 -
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