Chi dorme non piglia pesci. ”Non Riesco A Dormire” è il primo lavoro lungo di Boris Ramella, cantautore di Sestri Levante, a tre anni dall’esordio “Per Pura Comodità”. Otto brani che certo soporiferi non sono, nel loro incedere pop, anche se lui durante la lavorazione qualche problemino col sonno ce l’ha avuto, come ha ammesso in quest’intervista con Extra!
Insomma visto il risultato, ben venga l’insonnia. Sei riuscito a recuperare adesso?
A dire il vero anche adesso ho qualche problema…Il titolo dell’album è stato inventato da Maurizio Carucci (Ex-Otago) col quale abbiamo avuto modo di conoscerci e di scrivere anche un pezzo insieme. Credo che lui, al di là del titolo, che è un po’ la bandiera del disco, mi abbia capito molto bene. La realizzazione è stata lunga, se parliamo di tempo intercorso dal mio primo lavoro, ma in realtà ci sono stati parecchi, lunghi tempi morti imposti dalla vita, dagli impegni, dalle sfighe varie. Inizialmente ho scritto le canzoni e poi le ho pre-prodotte utilizzando una drum-machine per la parte ritmica ed elettronica, seguendo gli arrangiamenti con l’amico e bassista Massimiliano Caretta. Poi in studio ci siamo stati circa un anno, da giugno 2014 a maggio 2015. Lavorando, nei primi tempi, circa due giornate al mese per poi darci dentro con più frequenza. C’è stata anche una pausa forzata di tre mesi per sopraggiunti impegni di Lele Battista (produttore artistico e mentore), ma alla fine ne siamo usciti soddisfatti.
Hai citato il tuo precedente EP. Hai ritenuto di seguire quella strada o di cambiare registro?
Veri punti di contatto non ritengo che ce ne siano. Sicuramente c’è lo stesso sguardo al pop ma quello che ho scritto mi sembra sia andato da un’altra parte rispetto all’EP.
Il pop, ecco, anche se per me è da intendersi nel senso nobile del termine. Quali ascolti ti hanno influenzato?
Intanto ringrazio per averlo precisato. Per quanto riguarda gli ascolti citerei soprattutto i The Shins di “Port Of Morrow”, Edward Sharpe & The Magnetic Zeros, Wilco, Rino Gaetano, Lucio Battisti, Angus and Julia Stone.
Le storie raccontate nelle canzoni sembrano slegate l’una dall’altra, ma c'è un tema di fondo che fa da collante a questo lavoro?
Non direi. L’unico tema di fondo è il fatto che l’abbia quasi esclusivamente scritto di notte, ché la notte, per me, è il momento in cui ritrovarmi e provare a farmi delle domande, per forza di cose. Infatti è un disco molto intimo. Semplicemente sono stato visitato da alcuni fatti, alcune storie, e le ho raccontate così.
Il suono è molto ricco, arioso. Quanti e quali strumenti hai suonato tu?
Bellissima definizione. Mi sono divertito a suonare soprattutto le chitarre acustiche, ma ho fatto anche qualche elettrica, una classica, una parte di basso, sintetizzatori e percussioni varie.
Potresti raccontarmi dell'esperienza di lavoro con Lele Battista e della collaborazione con Giuliano Dottori?
Conoscevo Lele dapprima come artista, poi un’amica comune (Eleonora Tosca, bravissima cantautrice tra l’altro), sapendo che cercavo un produttore artistico per dare una quadra e tracciare la rotta per quest’album, mi ha consigliato di contattarlo. È stato tempestivo ed abbiamo cercato subito di capire insieme quale fosse la chiave giusta per “dare sangue” a queste canzoni. Il lavoro in studio è stato molto divertente, anche stancante, ma sicuramente un’esperienza incredibile ed indimenticabile. Ho trovato molto intelligente l’approccio di Lele al progetto. Ha rispettato la natura dei pezzi senza stravolgerne l’essenza, apportando qua e là piccoli/grandi dettagli che, a mio avvisto, hanno valorizzato il tutto. Ha saputo dirigermi vocalmente e mi ha reso più forte, più sicuro. Preciso: io non sono uno capace di fare “montagne russe” con la voce, e non m’intriga nemmeno quel modo di interpretare. Poi, ok, Lele ha veramente suonato di tutto in questo disco: pianoforte, flauto, sintetizzatori, glockenspiel, percussioni, cori, chitarre elettriche... Insomma ci siamo divertiti molto. Giuliano Dottori, invece, è uno capace di scrivere dischi bellissimi. E lo ha fatto. C’è la vita, c’è il sogno, il cinema, la letteratura, in quello che scrive. Io mi sono limitato a immaginare che sarebbe stato bello sentire la sua voce su “Dentro Casa”, la canzone che gli ho sottoposto, così gli ho scritto in privato su Facebook. Lui è stato gentilissimo ed avendomi confermato che il pezzo lo trovava carino mi ha fatto questo regalo che mi ha reso felicissimo. Ecco tutto.
Come mai in chiusura c'è un pezzo interamente strumentale, peraltro l'unico della scaletta? Inoltre ha sonorità quasi post-rock.
Mi piace molto il genere. Il pezzo aveva anche un testo in genesi ma poi ho capito che era più sincero in questa veste. Le sonorità post-rock credo siano soprattutto merito di Alessandro Pedretti (batterista nella band rock/cantautorale Giuradei e nel duo strumentale Sdang!) che ha seguito, sì, le dritte che gli abbiamo dato, ma che ha anche messo la sua grande personalità, dando al tutto un temperamento ben più incisivo.
Il mood in generale è molto solare. Ti descriveresti così allegro anche come persona o sei il classico esempio di artista che caratterialmente è tutto l'opposto di come scrive?
In verità il disco non lo vedo molto solare. Ricordo che è un disco scritto di notte. Io? Sono un po’ triste e un po’ allegro.
Farai un tour, immagino. Quanto è difficile per un cantautore conciliare gli impegni da musicista con quelli lavorativi?
Se si ha un lavoro fisso per campare è sicuramente difficile conciliare. C’è un tour, fortunatamente. Parto il 18 maggio da Milano per concludere questo primo match il 4 giugno in Sicilia. Suoneremo praticamente tutti i giorni. Sarà una bella avventura, spero.
Articolo del
17/05/2016 -
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