Questa volta lo posso dire da fan senza vergogna e senza ritegno: Aaron Stainthorpe è uno dei miei idoli assoluti da tanto di quel tempo che mi fa paura persino pensarlo. E avere l’opportunità di intervistarlo, inutile dirlo, per me è la realizzazione di un sogno. Il deus ex machina dei My Dying Bride, seminale formazione death-doom britannica, è molto più che un cantante: è un poeta straordinario, un attore, un drammaturgo, un cantastorie, pittore e artista di rara finezza, dal gusto decadente che però non cade mai nel goticismo stucchevole. E, sul palco, mette a nudo l’anima, pare sbranato, dilaniato in scena dalla sofferenza e dall’annichilimento che trasudano da ogni suo verso. Un personaggio che è raro incontrare, insomma. L’unico mio terrore era che il suo peculiare essere artista si traducesse nel dovergli estorcere ogni risposta con le pinze, come talvolta capita con queste anime tormentate. Per mia fortuna, anche questo timore si rivela infondato e il genio del doom si rivela ben più loquace e spiritoso del previsto. In questa intervista parliamo letteralmente di tutto, da Lana Del Rey a Dio, inteso sia come il mai abbastanza compianto Ronnie James, sia come il suo celeste omonimo; ma iniziamo dal chiedergli…
Come sono andate le cose al recente Blastfest in Norvegia, e quali sono le aspettative per la prossima puntata dei My Dying Bride negli Stati Uniti?.
E’ stato grandioso! E’ andato tutto benissimo, la location, i concerti, il tempo libero … Bergen è stupenda e c’era un clima ideale, del resto quando sei in Norvegia ti aspetti freddo e tormente di neve, no?! E’ stato strano e anche bello ritornarci, era molto tempo che non passavamo da quelle parti, anche se agli inizi della nostra carriera abbiamo suonato spesso in Scandinavia. Lo stesso vale per gli Stati Uniti, dove ci apprestiamo a tornare (il 25 maggio a Baltimora, ndr) dopo molto tempo, ci eravamo stati in tour con Ronnie James Dio e ovviamente era stata un’esperienza magnifica: grandi concerti, ottimo pubblico, e soprattutto Ronnie, Dio lo benedica sempre. In questo caso, trattandosi di una data unica, è un viaggio un po’ stressante perché partiamo il venerdì per suonare il sabato e rientrare la domenica … Ma la cosa veramente pazzesca, dal mio punto di vista, è che rischiamo di vedere al concerto le stesse facce che vediamo in tour qui in Europa. Alcuni dei nostri fan europei sono veramente assidui, al punto che molto probabilmente si sobbarcheranno questa trasferta di migliaia di chilometri per venire di nuovo a vederci!
A proposito di fan, il vostro ultimo album, A Map Of All Our Failures, ha ricevuto recensioni contrastanti, ma a quanto pare vi ha portato anche qualche nuovo adepto; io personalmente l’ho trovato un album in pieno stile My Dying Bride, ma secondo te cosa è stato ad attrarre i ragazzi più giovani in questo caso?
Ultimamente si sta verificando una cosa stranissima, soprattutto in Gran Bretagna, dove viviamo, non so se altrove sia lo stesso: il 50% dei nostri nuovi fan sono ragazzi giovanissimi, che ti chiedi, ma cosa ci troveranno in una musica come la nostra? L’unica risposta che mi sono saputo dare è che, quando una band è in circolazione da così tanto tempo come lo siamo noi, smette, in un certo senso, di essere una band e raggiunge una sorta di status, per il quale diventa per così dire figo ascoltarla. Ora, per quanto riguarda i ragazzi più giovani, noi ovviamente non siamo i Green Day, la nostra musica è gotica, heavy e doom, non c’è niente in essa che possa apparentemente attrarre un teenager. Credo che gli adolescenti siano attratti dal concetto globale dei My Dying Bride, dal nostro quadro complessivo dell’arte, che comprende non solo la musica. E poi, ripeto, ormai siamo una band datata, ed è figo ascoltare le vecchie band. Non è un problema, posso conviverci!
Shaun MacGowan è il membro più recente ad aver fatto il suo ingresso nella band, ma mi pare che abbia dato un contributo cruciale a quest’album.
E’ vero. In passato aveva fatto poche cose isolate per i My Dying Bride, e fondamentalmente si era limitato a quello che gli si diceva di fare, mentre adesso scrive autonomamente la sua musica, è diventato un songwriter a tutti gli effetti, scrive anche alcune parti di chitarra, stiamo lavorando su molto materiale nuovo. E’ strano che la cosa venga da lui, perché in passato era molto più timido e titubante nel presentare le proprie proposte, mentre adesso arriva direttamente, tutto “Ehi, date un’occhiata a questa roba, è fortissima, è già pronta per una canzone!” Ma questo è quello che io voglio da eventuali nuovi membri. Siamo una band con una lineup ormai costituita e stabile e in passato eravamo molto meno aperti a simili cambiamenti, ma non voglio che i nuovi membri arrivino e si siedano ad aspettare ordini; voglio idee, voglio il contributo di tutti.
Quando ho iniziato ad ascoltarvi, nel lontano, ahimè, 1999, sono subito rimasta colpita dal misto di melanconia e sensualità portato dalla vostra musica, ma è stato leggendo i testi che me ne sono davvero innamorata; si può dire che ci sia un doppio livello nelle vostre canzoni?
Decisamente. Sono io stesso a scrivere i testi, mi piace lavorarci, amo tornire ogni singola parola che scrivo, amo la poesia e le parole, e mi piace utilizzarle al massimo delle loro potenzialità espressive. Vedi, chiunque è in grado di scrivere una piccola storia, o un racconto, ma è diverso quando le parole vengono assemblate in modo poetico, fiorito, in modo da creare ulteriori livelli di significato. Personalmente credo che la poesia faccia più parte del modo di sentire femminile anche nella musica, rispetto al mondo maschile che è più attratto dai testi, spesso fin troppo essenziali, del metal. Voglio sforzarmi un po’ di più, rispetto, che so, al bere sangue di vergini o cose del genere. E una cosa che mi fa molto piacere, è che questo sforzo mi venga riconosciuto, perché di fatto non mi è mai capitato di leggere una recensione negativa riguardo ai testi dei My Dying Bride. Sono testi che danno da pensare, da discutere.
Sei sempre stato molto ispirato dalla mitologia arcaica, dalla poetica ossianica, da miti e leggende. Quanta parte delle tue canzoni è finalizzata al puro racconto di una storia, e quanta invece attiene alla vita reale, metaforicamente parlando, e al tuo io interiore?
Direi 50 e 50. Sono ispirato da tantissime cose che leggo, che vedo, che ascolto. A volte, quando leggi una storia, ti capiterà di immedesimarti in un personaggio al punto tale da avere l’impulso di farlo agire in un altro contesto, non nella stessa storia ovviamente, o di avere queste idee improvvise dalle quali puoi sviluppare un tuo racconto. Lo stesso mi capita ascoltando musica, o guardando film, io ne guardo moltissimi, e a un certo punto è come se la mia mente si espandesse e sentissi di dover scrivere quello che sto immaginando. Altre volte, sono ispirato direttamente da opere storiche che ho letto, “Hail Odyssesus”, per esempio, è direttamente tratto dall’Odissea di Omero, e questo era stato anche il caso di “The Raven And The Rose”. Quando invece parlo di me, molti hanno l’impressione che io dia vita a un ulteriore personaggio, per farlo, ma il problema è che, quando fai qualcosa in cui ti esprimi per quello che sei veramente, in cui metti davvero a nudo il cuore, è sempre meglio, come posso dire? Trattenere qualcosa, ecco. Altrimenti ti esponi troppo e il tuo cuore finisce per diventare un bersaglio facile.
Metafora bellissima, e molto vera. Cosa mi dici invece di The Manuscript? E’ stato pubblicato quasi in contemporanea al full length, ma ha un sound totalmente diverso, più crudo, più death quasi. Infatti sono stati registrati contemporaneamente. Il problema era che lo spazio a nostra disposizione per il full length era limitato, così abbiamo preso tutto il materiale per così dire avanzato, e l’abbiamo riregistrato e riprodotto in maniera totalmente diversa. Questo perché il pubblico probabilmente si sarebbe aspettato un’estensione di “Map”, e noi naturalmente non volevamo dargli ciò che si aspettavano. Per questo ai brani di “The Manuscript” abbiamo cercato di dare un’impronta più cruda e aggressiva. E cos’è successo? Che a pubblico e critica è piaciuto di più l’EP dell’album!! Pensa un po’, tu stai lì a cercare di creare una cosa artistica, bella, con determinate sonorità, e invece … Ma che ne potevamo sapere noi? Niente, non ne sappiamo niente!! (risate, ndr)
Sull’EP è presente un titolo in svedese, Var Gud Over Er, letteralmente “Il nostro Dio al di sopra del vostro”: un richiamo alla storia scandinava?
No, ancora una volta è una storia scritta da me. Certo, ci sono dei riferimenti storici. Come sai, dal Medioevo in poi le grandi potenze europee, l’Inghilterra in particolare, hanno combattuto vere e proprie guerre di religione, che non sono finite con le Crociate in Medio Oriente, intendiamoci. Ancora oggi, in maniera certo non così aggressiva ma pur sempre invadente, ci sono missionari cristiani che raggiungono gli angoli più oscuri e dimenticati dell’Africa o dell’Amazzonia e cercano di imporre la loro visione alle popolazioni locali. Da oggi, gli dicono, Gesù è il tuo nuovo Dio. E quelli, come? Scusa? No, guarda, grazie, abbiamo già il nostro credo, ma grazie lo stesso di essere passati a trovarci. E loro insistono: no, ho detto che da oggi Gesù è il tuo nuovo Dio! Quindi non ho fatto altro che scrivere una storia su questo, l’ho ambientata in Scandinavia perché … Perché … Beh, non saprei, perché mi piaceva l’idea, suppongo! (risate, ndr) E poi, sono molto amico di Leif dei Candlemass, e proprio a lui avevo chiesto un suggerimento per il titolo di questa canzone. A lui è piaciuta moltissimo, e si è subito immaginato questi scenari storici ribaltati, con i Vichinghi che si prendono la loro rivincita, non ti dico!! Ora, non so come si pronunci correttamente, il mio svedese è meglio lasciarlo stare (ride, ndr), comunque per assurdo tutti si sono immaginati chissà cosa dietro a questa canzone, pensando che facesse riferimento alla jihad, ai terroristi suicidi e chissà che altro … Assolutamente no, per me quella gente è semplicemente pazza, è pazzia pensare di imporre una divinità al di sopra di un'altra, perché il mio Dio è il migliore è il tuo è corrotto, e se non credi nel mio Dio sarai condannato a morte. Io personalmente non credo in Dio, e per me questa è follia, davvero.
Hai ragione, anch’io lo trovo assurdo. Senti, vorrei una tua opinione sui sentimenti che la musica costruita a tavolino non è in grado di esprimere. C’è un livello emotivo che solo una musica un po’ ostica, che richiede una certa attenzione e concentrazione, riesce a raggiungere?
Dipende da ciò che ciascuno cerca nella musica che ascolta. Il pop non è necessariamente un male. Ad esempio, io sono un grandissimo fan di Lana Del Rey, nonostante sia in cima alle classifiche di mezzo mondo. Piange praticamente in ogni canzone, è talmente triste che non può non piacermi! Allo stesso modo adoro Nick Cave, e ha duettato con Kylie Minogue, maledizione! Pop non è Kylie, piuttosto che gli One Direction. Se riesco a percepire un’emozione, una lacrima, una sofferenza tra i versi di una canzone, e nelle loro ne sento a palate, quello per me è lo scopo che la musica dovrebbe raggiungere. Ora, capisco che, se parli a un metallaro di Lana Del Rey, quello probabilmente inorridisce, ma c’è bisogno di avere una mentalità un po’ più aperta, di dare una possibilità alle cose diverse. Io stesso, pur essendo stato profondamente influenzato dal death e comunque dall’ala più estrema del metal, amo la musica classica e l’opera e altri generi; anzi, probabilmente in questo momento non ascolto neanche più di tanto metal. C’è bisogno di aprire un po’ gli occhi, ecco. Magari puoi trovare qualcosa che ti piace in un artista da cui non te lo aspetteresti.
Anche qui mi trovi totalmente d’accordo. E anch’io adoro Nick Cave, tra parentesi. E’ vero, nel vostro caso, che i luoghi in cui vivete influenzino la vostra musica? Molti musicisti lo sostengono.
Certamente, è così. Prendi per esempio me e Nick Holmes dei Paradise Lost. Entrambi veniamo dallo Yorkshire, nel Nord dell’Inghilterra. Nick canta la trasformazione di quei territori che c’è stata in seguito all’industrializzazione e al successivo decadimento, la desolazione di questi scheletri di fabbriche e mulini abbandonati; io invece sono quello che cerca di tirare fuori la bellezza della natura, dei boschi, delle foreste. Non so se Nick la veda, lui canta lo scenario metropolitano, io quello bucolico, semplificando molto, ma la cosa fondamentale è che riesco a trovare la bellezza in ciò che vedo, e nei luoghi in cui vivo. Inoltre, nello Yorkshire piove molto, come in tutta l’Inghilterra, e la cosa a me non dispiace affatto. Amo uscire a camminare anche nelle giornate piovose, perché c’è qualcosa di estremamente passionale nella violenza di un acquazzone. Mi piacciono le giornate oscure e tempestose. Mi piace il fatto di sentirmi una sorta di eroe romantico e tormentato, solo in mezzo all’uragano mentre tutto il resto del mondo è rintanato in casa al sicuro!
Un’ultima domanda: Quanto è difficile, al giorno d’oggi, essere una band che si amministra autonomamente e gestisce ogni aspetto della propria attività, dall’artwork ai tour, senza il supporto di un manager?
E’ piuttosto difficile, ma ne vale sicuramente la pena. Voglio dire, cosa potrebbe fare un manager che io non possa fare? Fare qualche telefonata? Le posso fare anch’io, non c’è nessun problema. Fondamentalmente, credo che un manager vorrebbe avere la sua parte di utili, ecco tutto. Ci farebbe fare centinaia di date live all’anno, il che per me sarebbe terribile, pretenderebbe di mettere il becco su tutto, sulla produzione, sull’artwork … No, noi andiamo bene così perché ogni dettaglio è deciso e curato da noi, e perché così possiamo assumerci la responsabilità di ogni nostra scelta. Non possiamo lamentarci se qualcosa va male, perché è stata una nostra decisione. Cero, a volte le questioni più terra terra, i conti da pagare, le tasse eccetera, prendono il sopravvento e, diciamo così, possono diventare talmente antipatiche da portar via un po’ di gloria all’impresa nella sua totalità! Ma vogliamo continuare ad avere il totale controllo sui My Dying Bride. Siamo andati avanti per 24 anni così, e credo che nessun manager avrebbe potuto fare meglio di quanto abbiamo fatto da soli.
Oltre a questa inaspettata sicurezza, mi colpisce il fatto che sia il secondo frontman, nel giro di pochi giorni, che mi dice esattamente la stessa cosa sul management musicale e su cosa ne pensa; segnali da prendere in considerazione? In ogni caso, ancora una volta non posso che dargli ragione, perché tutto quello che è uscito dalle mani di quest’uomo e dei suoi compagni di avventura nell’ultimo quarto di secolo è semplicemente egregio, incantevole, magico, e ammaliante; e quindi concordo che qualunque elemento esterno, manager o altro, non avrebbe potuto essere che un disturbo per una simile creatività. In bocca al lupo Aaron … Let there be doom!
Articolo del
15/06/2014 -
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