Ogni volta che comincio a scrivere un pezzo mi chiedo sempre, ormai quasi come mantra, chi me lo faccia fare.
Detta così sembra che io detesti scrivere, in realtà, come si può intuire, è l’esatto opposto, e quella domanda me la pongo sempre per tentare di non perdere il contatto con ciò che della scrittura mi interessa veramente: la sua potenza, la sua capacità di essere, se usata bene, eversiva e deflagrante.
Questo aspetto tento di non perderlo mai di vista quando scrivo, e non parlo della mia scrittura, che certamente potente non è (anche perché se lo fosse stata, probabilmente sarei dall’altra parte della metaforica barricata), ma, anche questo è facilmente intuibile, della scrittura della e nella forma canzone.
Mi spiego meglio, e lo faccio con un esempio pratico.
Anno 1962, Luigi Tenco: “Mi sono innamorato di te/ perché non avevo niente da fare”.
Sono i primi due versi del pezzo.
E, per quanto mi riguarda, potrebbero anche essere gli unici.
Sono due versi incessanti nella loro bellezza.
Scolpiti.
Definitivi.
Dopo quei due versi non ci può essere più nulla, se non una nuova vetta poetica.
Non so se mi sto spiegando bene, ma in quei due versi c’è tutta la potenza atomica di una canzone, e non parlo di metrica, fonemi ed altre cazzate varie, che nell’economia della critica musicale e della spiegazione sul perché un pezzo del genere sia immortale sono valide come l’orgia di figure retoriche utilizzate per “spiegare” Leopardi, salvo non farci capire comunque una minchia del messaggio vero.
Parlo della potenza del concetto, e della potenza del concetto espressa in quel preciso modo: “Mi sono innamorato di te/ perché non avevo niente da fare”.
In undici parole tutta la disillusione, tutta la bellezza, tutto l’amore più profondo e più disperato che si possano raccontare.
Ecco la potenza della parola e della forma canzone.
O, altro esempio, quel “Vive male la sua vita/ ma lo fa con grande amore” di Piero Ciampi.
Anche qui, stesso giochino di prima: prendiamo il concetto e le parole usate per esprimerlo.
“Vive male la sua vita, ma lo fa con grande amore”: è un verso di un lirismo enorme, riesce a contenere un intero vissuto e, ancora di più, un intero modo di vivere. Riesce a mettere insieme il dolore esistenziale più sordo, col suo carico di disillusione, con una fame di vivere disperata e commovente.
La stessa carica detonante che c’è, per esempio, nel “Perché Dio non guarda/ Dio bestemmia/ e alle volte non si applica” del Paolo Benvegnù di “La Schiena”.
Anche qui, sono versi in grado di aprire mondi, di rilasciare scosse ad altissimo voltaggio, sono pugni in faccia, secchi e diretti proprio per l’immaginario che riescono a creare con quelle precise parole.
Manuel Agnelli, su “Bye Bye Bombay” ricorda a Mimì Clementi che “non si può giocare con il cuore della gente/ se non sei un professionista”. E mai frase fu più corretta per sottolineare la pericolosità delle parole, soprattutto di quelle delle canzoni.
Un altro dei versi più esplosivi (ed è il caso di dirlo) che ho incontrato nella mia carriera da ascoltatore (e prima o poi mi ci farò anche fare una maglietta) sta su un pezzo del 2009, targato Giorgio Canali e Rossofuoco che, spoiler, sarànno il focus di questo mio scritto.
“Proteggi i nostri impeti, Nostra Signora della Dinamite”, che qualche verso dopo diventa “Salvaci dalle micce corte, Nostra Signora della Dinamite”.
Non è difficile comprendere quanto siano due versi altamente incendiari, non solo per il riferimento all’esplosivo. Già la figura di una Nostra Signora della Dinamite è qualcosa di straordinario, una invenzione letteraria degna di ogni attenzione.
Poi, come detto sopra, è la somma di concetto raccontato+ parole utilizzate che rende il verso incredibile.
“Proteggi i nostri impeti” è quasi un ossimoro commovente: conservare la tendenza all’impeto, alla curiosità, al non stancarsi mai di morire per risorgere per morire di nuovo.
“Salvaci dalle micce corte”: permettici sempre di fare il botto, di mantenerci esplosivi, di “brillare mentre si scende”, tanto per citare di nuovo Giorgio.
E’ una forma altissima di preghiera laica, non c’è altro da dire.
E infatti non dico altro, anche perché non so quanto questa retrospettiva filosofica possa piacere a Giorgio, per cui vado bello dritto a parlare di “Venti”, il suo nuovo album, che di carne al fuoco e potenza letteraria ce ne stanno a iosa anche lì. E’, questa, l’ottava prova in studio per Canali& Rossofuoco (che sono Marco “Testadifuoco” Greco al basso, Stewie Dal Col alla chitarra e Luca Martelli alla batteria), ed arriva a due anni di distanza da “Undici canzoni di merda con la pioggia dentro”.
Canali riesce a mettere in ogni suo lavoro un sacro fuoco incazzato, che trova il suo naturale sbocco in una lucidità narrativa quasi drammatica: c’è ben poco da obiettare su quello che Giorgio scrive, basta guardarsi intorno per capire che è effettivamente così.
E’ una narrazione schietta, cruda, costantemente in bilico fra disillusione e spinta titanista.
Da quel punto di vista lì, “Venti” non fa nessuna eccezione.
Album per cui vale il classico nomen omen: venti canzoni, tutte con dentro una componente non indifferente di esplosivo.
E tutte con dentro delle gustosissime easter- eggs, dei rimandi ai padri nobili della canzone d’autore nostrana, da De Gregori a De Andrè, passando per Guccini, Battiato, Fossati, Tenco, Gaetano, Jannacci, Bertoli, Graziani, Vecchioni, Venditti, Dalla.
Tutti i riferimenti li trovate qui sopra https://www.psicolabel.com/wp-content/uploads/2021/01/000-album-venti-testi-ipertext.pdf?fbclid=IwAR2s_R-AhomLWJtJwrSFEyRsK4VROzJ4_DIyU-_PfdNiGlD7r3FPsNH2rHk.
A quelli lì presenti mi permetto di aggiungere un Battiato ed un paio di De Andrè “fuggiaschi”, oltre che il bel rimando ai Bauhaus
Adesso però direi che possiamo cominciare a parlare davvero dell’album.
E cominciamo partendo da “Eravamo noi”, cinica fotografia di un paese storicamente abitato da un certo vecchiume intellettuale. Un pezzo sorretto da un arpeggio di chitarra elettrica, riempito da un ebow che fa da tappeto e da qualche spruzzata di synth. In coda, ad accompagnare il solo di chitarra, un pattern di batteria marziale.
“E siamo noi, siamo noi che continuiamo a precipitare per un vuoto d’aria, un vuoto di memoria, un vuoto più vuoto del vuoto qui dentro e adesso non ti sento, non ti sento, non ti sento più…”
Secondo pezzo è “Morire perché”, brano col bollino 100% Rossofuoco: chitarra ritmica ad arpeggiare, basso incandescente sulla tonica, delle tastiere lontane a dare colore ed un solo finale a sublimare il tutto.
“Morire com’è? Morire come muore il giorno, meravigliosamente, in un tramonto rosso inferno”
Un intro di armonica apre “Nell’aria”, uno di quei pezzi capaci di descrivere il presente con una lucidità cruda e disarmante, la distopia che si fa realismo. O che, più probabilmente, distopia non è mai stata. Degno di nota è anche l’intreccio fra le due chitarre, ritmica e solista, legate alla perfezione da una linea di basso avvolgente.
“Nell’aria l’odore della paura cancella il profumo dei fiori e resta attaccato ai vestiti una vita intera e si sa che a tarda sera
Le storie di mostri in tv spaventano di più”
Un rullante in perfetto stile “I fought the law” lancia quella clashata splendida che è “Inutile e irrilevante”, una scarica di adrenalina fatta canzone. Schitarrate distorte, basso galoppante sulla tonica e bridge centrale di armonica come unica apertura melodica compongono la dinamica di un brano che racconta di presunti antagonisti diventati “inutili e irrilevanti” per l’arrivo di un “nemico un po’ più grande”.
“Ora che c’è una guerra più santa di quella e il sol dell’obbedire splende sulla terra ora che ti abbiamo dato una paura un po’ più grande sentiti se vuoi inutile e irrilevante. ”
“Wounded Knee” è sorretta da un tappeto distorto ed elettrificato, con i glissati del basso a dilatare ulteriormente l’atmosfera ed il solo finale di chitarra che sembra quasi un lamento. Brano che è una “ballata malinconica con la poesia della sconfitta dentro”, per dirla come lo stesso Canali, che non perde occasione per inventarsi dei versi sfavillanti, “Vieni a vedere la morte ogni fottuto giorno sempre puntuale, vieni non ti deluderà anche se al mondo è solo la seconda cosa più spettacolare, ma un’aurora boreale c’è quando c’è e non si può prenotare” ne è un esempio abbastanza lampante.
Sesta traccia è “Tre grammi e qualcosa per litro”, pezzo dalla ritmica incessante, scandita da un riff di chitarra, da una linea di basso molto marcata e da un pattern di batteria, giocato su tom e rullante, dai colori marziali. Lo squarcio centrale dell’armonica costituisce l’apertura melodica del brano.
“So quali sono i miei fottuti limiti in questo mondo quasi statico, sono un maestro di equilibri instabili” è uno dei versi più belli di una drunken song cruda e diretta.
“Acomepidì” è il mio prototipo di canzone d’amore: disillusa, secca, autentica. Cantare l’amore in questi termini è davvero un atto profondamente politico. Anche qui siamo di fronte ad un pezzo in perfetto stile Canali& Rossofuoco: una chitarra a fare il riff e l’altra a giostrarsi la ritmica, un blocco distorto che traina il pezzo verso un lirismo anche strumentale.
“L’amore in un mondo distratto che non si ferma davanti a niente, perché l’amore vince tutto e tu perdi sempre. ”
Chitarre scatenate alla Gun Club costituiscono l’ossatura di “Raptus”, brano dal ritmo delirante, sorretto da un’acustica, mentre l’elettrica impazzisce fra svisate e fraseggi selvaggi.
“Che fatica avere a che fare con idioti che sanno tutto loro come se avessero il terzo occhio e invece hanno solo il secondo buco del culo. ”
Altro pezzo col bollino di garanzia Rossofuoco è “Circondati”: schitarrate ritmiche distorte e tempestose, con le chitarre soliste come unica apertura melodica del pezzo. Una linea di basso incisiva e secca sorregge ed amalgama tutti gli elementi.
“L’autorevole compagno guarda in camera dice di armarci sì, ma di pazienza, poi con fare solenne imposta la voce e rende onore alla resistenza, sia ben chiaro, solo quella di ottant’anni fa e sventola con aria orgogliosa il fiore secco (o bella ciao!) Del partigiano (o bella ciao!) Morto per cosa? ”
Il giro di boa dell’album è “Meteo in cinque quarti”, canzone zuppa d’acqua e di malinconia, commovente nel suo essere sghemba. Pezzo sorretto dalla linea di basso, con un tappeto di tastiere molto soffuso in sottofondo ed il solo di ebow a riempire.
“E adesso piove, guarda un po’ che cosa porta il vento: un’altra canzone di merda con la pioggia dentro, puoi sparartela in cuffia per non sentire la gente o ficcartela in culo, facendo finta di niente. Abbracciami ancora, come quando questa pioggia non c’era. ”
“Vodka per lo spirito santo” è un’altra drunken song malinconica ed etilica, sorretta dalla chitarra acustica e colorata dai contrappunti della slide guitar, con un pattern di batteria che si snoda fra rullante e cembalo ed un solo di armonica al centro.
“C’è qualcuno che mi ama come sono sono? Qualcuno che mi da un bacio anche se non sono stato buono? Qualcuno che mi offre una vodka senza che io chieda perdono? ”
“Dodici”, perfetta continuazione (ahinoi) della “Undici” del disco precedente, è un muro elettrico fatto di schitarrate forsennate e bassi martellanti, un pezzo che non avrebbe sfigurato affatto neanche su un disco come “Rojo”, ad esempio.
“Anaffettivi asintomatici simulano empatia ma nelle loro parole solo paura e ipocondria. ”
“Canzone sdrucciola” è trainata da un arpeggio di chitarra ritmica, con un lontano tappeto di tastiere sul ritornello. La chitarra solista è, rispetto agli altri pezzi, più nascosta per tutta la durata del cantato. Il solo finale, dissonante e liberatorio, però ripaga perfettamente l’attesa.
“Chi esercita il potere non si accorge dei risvolti comici e in un’apoteosi di comicità et voilà, assistenti civici e se è questo che vuoi, fottiti. ”
Un fischio che è quasi un riff lancia “Viene avanti fischiando”, pezzo dall’afflato letterario incazzato e distruttivo, sorretto da una sezione ritmica composta da chitarra acustica e basso, mentre na leggera tastiera va a fare da tappeto ed un crescendo elettrico dà colore al pezzo.
“Avanza inarrestabile e continua a fischiare, spacca vetrine, lampioni, teste e tutto quello che c’è da sfasciare, sputa fuoco dagli occhi, non riconosce più nessuno, c’è chi dice che ha perso il lavoro, c’è chi dice che è colpa del vino, certo… non è colpa del vino”
“Come quado fuori non piove più” è accesa da un riff acido e sostenuta dalla linea di basso. In mezzo, il violino di Andrea Ruggiero dà un tocco distorto di colore, per finire ad intrecciarsi con la chitarra sulla coda del brano.
“Come quando s’incendia il cielo, come quando incendierei la tv, come quando sto bene da solo, come quando non piove più”
Arriviamo a quello che, personalmente, trovo il pezzo più bello dell’album, “Requiem per i gatti neri”. Un brano malinconico, zoppicante, notturno, quasi indifeso, sorretto da un arpeggio di chitarra riempito da un tappeto di ebow e contrappuntato da un pianoforte.
“Una notte che non si trova niente, condannata a una lucidità deprimente. E i nottambuli ostinati, in una nuova resistenza, dietro la serranda abbassata all’orario di ordinanza”
“CDM (Te la devo)” è un altro ottimo esempio su come scrivere una canzone d’amore. Molto bello il fraseggio della chitarra solista che infrange il muro di suono che regge la canzone, squarciata dal solo di armonica sul finale.
“Speravi fosse una canzone d’amore da cantare al tramonto guardando il mare… è una canzone di merda, che ci vuoi fare ma mi è venuta così… c’est la vie…”
“Cartoline nere” è un pezzo splendido, un caleidoscopio di emozioni e di sentimenti, raccontati con una potenza ed una libertà commoventi, col vento in poppa ed “il mare dentro”. Ed un muro elettrico è il miglior vestito che ci potesse essere per questa canzone.
“Sorride ai morti, quelli veri, che camminano per strada, dice “buongiorno” nessuna risposta… la luce che ha negli occhi sono i fulmini nella sua testa, traballa danzante ma non cade mai mentre prende a calci i piccioni di merda, poi si appoggia al muro e piange per davvero
Urla al cielo tutto lo zoo di Berlino e tutti i nove miliardi di nomi di dio, poi entra in chiesa e si mette a fumare l’ennesima paglia davanti all’altare. ”
Su “Proiettili d’argento” ritornano le sviolinate di Andrea Ruggiero, che tira fuori degli ostinati ritmici cupi e dei fraseggi asfissianti, in perfetta linea col pezzo, sorretto da un pattern di batteria bellicoso. Il solo di armonica è l’unico momento di apertura del brano, da lì segue un crescendo angosciante ed inquieto che sfocia nel solo dissonante dell’ebow.
“Batte il tamburo veloce, la fine è all’orizzonte, lo senti il suo canto, batte il tamburo veloce, che anche qui l’orizzonte non è poi così tanto e noi, bestie senza pedigree che rifiutiamo l’amore, noi, figli della notte buia, ci purificherà il sole. ”
A chiudere il disco ci pensa un altro pezzo splendido come “Rotolacampo”, una canzone in viaggio, libera, a tratti malinconica ma senza nessun rimorso, piena di immagini di altissima poesia e con un afflato dylaniano, dettato dall’accoppiata chitarra acustica- armonica, cui si affianca un violino a contrappuntare.
“Ma è che quando tocco il fondo, invece di risalire, ho un doppiofondo segreto tutto per me. ”
E dopo quel verso lì credo che non ci sia più nulla da dire.
I versi definitivi fanno questo, ti lasciano senza parole.
E spesso con gli occhi umidi.
Ecco, “Venti” è tutto un enorme verso definitivo.
Fate un po’ voi.
Articolo del
02/03/2021 -
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