Qualche tempo fa parlavo- come spesso mi accade- della Sicilia.
Uno dei suoi figli più illustri, Salvatore D’Onofrio, ha scritto un libro meraviglioso, si chiama “Il selvaggio ed il suo doppio”, se lo cercate lo troverete in francese, ma non è nulla che una conoscenza anche superficiale non riesca a tradurre.
E’ una spettacolare disquisizione antropologica sul mito e sulla sua duplicità di significato, rapportata anche ai suoi protagonisti ed ai loro comportamenti.
Adesso, con una associazione di idee volendo abbastanza stupida e molto campanilistica, riflettevo sul fatto che un libro del genere non poteva che essere scritto da un siciliano, un figlio, appunto, della terra del doppio per eccellenza.
Terra con una sua personalissima duplicità “d’animo”.
Per cui il contraltare alla Sicilia verde e “rigogliosa” di cui parlavo qualche settimana fa è la Sicilia “torta” (che significa, letteralmente, “storta”, ma si deve intendere come “sbagliata”, in una accezione non universale, ma decisamente più vicina ad un essere sbagliati secondo un pensiero comune, quello, per intenderci, della “maggioranza” deandreiana), quella secca.
Mi spiego meglio.
Se, invece di una recensione, stessi scrivendo una sceneggiatura, verrebbe fuori una cosa del genere: esterno giorno, primissimo pomeriggio con sole a picco e temperatura altissima. Da una costa arsa ed ingiallita si vede il mare, alle nostre spalle una casetta a dado bianca è l’unico elemento del piano. Lucertole prendono il sole sui sassi, un leggerissimo scirocco scuote a malapena le zagare.
Il paesaggio è quello. E più che un paesaggio è una vera e propria condizione: lo scirocco che scuote a malapena le zagare è la versione, diciamo così, poetica di quel gattopardismo di cui troppo spesso siamo vilissimi alfieri.
L’animo del siciliano appartenente a questo secondo paesaggio è quello di una persona distaccata ed incazzata. Sa che presto o tardi dovrà allontanarsi- anche solo temporaneamente- dalla sua terra d’origine, quella stessa terra che lo tradisce togliendoli la possibilità di rimanere.
C’è una voce che canta tutto questo, c’è una penna che lo racconta.
Cesare Basile appartiene a questo paesaggio così disilluso ed, a tratti, fatalista.
Ed è una fortuna averlo.
Perché, nonostante anni di malgoverno e di pericolose “magnifiche sorti e progressive” (che hanno avuto come unico risultato tangibile quello di far aprire catene di fast food “tipico”, riuscendo a brandizzare nel modo più vomitevole possibile- quello capitalista- l’unica cosa davvero caratteristica che ci era rimasta, il cibo di strada), di imbonitori, di riciclati Tancredi Falconeri, di mafiosi paladini dell’antimafia, di moralisti spiccioli e di egoisti sdruccioli, riusciamo ancora ad illuderci di essere vicini alla rinascita.
Ecco, Basile è la voce della nostra coscienza.
E c’è solo una cosa che forse potrà salvarci: una “Cummeddia”.
La “Cummeddia” è la cometa (ma anche l’aquilone), ed in Sicilia è visto, seguendo la duplicità di cui sopra, come simbolo di sventura, ma anche (o quindi) di possibile palingenesi.
“Cummeddia” è anche il titolo dell’ultimo album di Cesare Basile e dei suoi fedeli Camminanti. Ed è un album che non affonda le sue radici solamente nella rurale superstizione siciliana, ma parte da più lontano, da Camus e dalla sua “Peste”.
Preceduta, guarda caso, da una cometa.
Sopra scrivevo che è una fortuna avere uno come Cesare Basile a raccontarci questi tempi, più che mai appestati di ben altro- e purtroppo molto più “umano”- virus di quanto ci possa sembrare.
Basile è un cantastorie vecchio stampo, che mette al centro il messaggio. E “Cummeddia” lo dimostra in tutte e undici le tracce che lo compongono.
E’ una pallottola infuocata già dall’inizio: “Mala la terra ca è patria”. Anarchico e lapidario, è un verso già definitivo, senza possibili ambiguità. E la sua prosecuzione è ancora più forte (vado direttamente con la traduzione, ndr): “cattiva è la pianta che genera, cresce e ti cava l’anima”. Versi scanditi, quasi come una formula magica, da un coro femminile (Sara Ardizzoni e Vera Di Lecce) alla Les Filles d’Illighadad e da un ossessivo riff di chitarra che, sostenuto da un’altrettanto incessante sezione ritmica, finisce per dare al pezzo un’atmosfera straniante.
Il secondo pezzo è terrificante. “L’arvulu rossu” racconta della deportazione degli omosessuali catanesi sulle Tremiti voluta dal questore Molina nel ’38. Un testo durissimo (“A scudo della razza lo sbirro sentenzia, cava il male all’umanità, tu sei cattiva semenza”) montato su un ritmo incessante, scandito da una chitarra acustica e dalle percussioni del Maestro Alfio Antico e di Gino Robair, mentre le tastiere di Hugo Race danno al pezzo un colore ondivago ed ombroso.
“E sugnu ‘taliànu” è forse il pezzo più spietato dell’album, per la sua lucidità e per la sua contemporaneità. Descrive la condizione di peste che ci affligge ma, contemporaneamente, descrive questa peste come mezzo per trattenere il potere, “ora ca lu schifìu fa tirrimotu li cchiù tinti cumannanu li festi, la pisti fici pustula’nte testi”. Devo continuare? Credo che il senso sia abbastanza esplicito. Qua le percussioni seguono una figurazione quasi marziale, mentre una linea di chitarra ripetitiva scandisce il pezzo.
L’epica da verghiano “ciclo dei vinti” del disco prosegue con una storia di dannazione e di folklore siculo, “La curannera”, pezzo sostenuto da un tappeto ritmico su cui una chitarra dai toni arabi (come, d’altro canto, tutte quelle dell’album, ma è un discorso un po’ più ampio che toccheremo fra non molto, così come un altro paio di temi del lavoro) gioca e dà imprevedibilità.
Altro passaggio sul colorato di folklore è “Setti venniri zuppiddi”, canzone che è un intreccio fra mito e letteratura, fra la “Favola del figlio cambiato” di Pirandello ed il mito di quelle che dalle mie parti sono le “donne di fuora”, entità a metà fra la magia e la stregoneria che, di notte, scambiano i figli alle madri o, in alcune varianti del mito, li rapiscono. Anche qui le venature desert blues sono evidenti, come suggerito dalle chitarre, che richiamano il Bombino di “Deran”, e dal djieli ngoli, come sempre impiantati su un tappeto di percussioni.
Altro gran pezzo, dal forte intreccio col presente, è “La naca ri l’anniati”. Basile immagina la nascita (o meglio, la morte) di Gesù Cristo in una culla in fondo al mare, insieme ai tanti altri poveri cristi inghiottiti dal Mediterraneo. Degni di nota sono la seconda strofa (“il cagnolino fa bau bau, il passerotto fa pio pio, un bel dormire fa Dio”), trasformando in passiva sonnolenza il “cielo vuoto” della religione, e l’ultima, con quel san Gioacchino che suona le campane a morto per la culla degli annegati. Il pezzo è una cupa ninna nanna in minore, con la chitarra acustica a farla da padrone ed una buia tastiera a fare da sfondo.
Le venature desert blues ritornano, prepotentissime, in “Chiurma limusinanti”, pezzo che si intreccia con le suggestioni letterarie di Jack London e della sua “armata dei pezzenti”, col loro livore distruttivo. Anche qui è una chitarra acustica a prendersi il palcoscenico, mentre le svisature di elettrica tessono i contrappunti arabi del pezzo.
La title track è lo spartiacque dell’album, un brano introdotto da un arpeggio di chitarra acustica, con le irruzioni di una elettrica molto meno araba delle altre. Il violino di Rodrigo D’Erasmo ed una tastiera- fisarmonica dilatano il clima del brano: sembra (sempre per tornare al discorso della resa tramite sceneggiature) di vedere un uomo seduto su un balcone in una notte di luna piena che, d’un tratto, vede una cometa che squarcia il cielo, avvertendone da subito il suo essere foriera di sventure.
Le venature fortemente arabe ritornano in “Chitarra rispittusa”, pezzo che impazzisce dei fantastici arabeschi elettrici di Sara Ardizzoni sul finale.
Il talkin’blues di “Cchi voli riri” è uno dei momenti più alti dell’album: una immagine distopica di un paese in costante guerra, un germe di follia che scoppia, come bubbone malato, a causa di spine di fichi d’India che si conficcano nelle carni del popolo, “erunu spiddi intelligenti, ca ti manciaunu u’ ciriveddu”. Da lì è un diluvio follia, una peste fatta di piccole verità personali che portano alla diffidenza verso l’altro ed alla guerra. Come sempre è la chitarra a risaltare, sempre ossessiva, sempre ripetitiva. Il violino di Rodrigo D’Erasmo e l’elettronica di Robair hanno il compito di rendere il pezzo disturbante e di sporcarlo, richiamando alle orecchie il barrito straziato del “liotru”, l’elefantino simbolo di Catania.
A chiudere il disco ci pensa “Mina lu ventu”, pezzo che è- stilisticamente- quasi in antitesi con quanto sentito finora: scompaiono le atmosfere cupe ed in minore, c’è spazio per un pezzo dal gusto orientale, con il violino pizzicato di D’Erasmo, la lapsteel di Roberto Angelini e l’elettronica a portare il brano verso aperture più leggere.
C’è una cosa di cui non ho parlato, uno degli altri temi di cui scrivevo sopra, è la parte che riguarda l’interpretazione di Cesare Basile: ogni parola viene quasi sputata fuori con una sacra rabbia indignata. Ma d’altro canto Basile è un cantastorie vecchia maniera, e non parla per dar fiato alla bocca. Canta e racconta un disco politico. Lo fa con una interpretazione sofferente ed appassionata. E, giusto per tornare al doppio di inizio articolo, è incredibile come la sua voce riesca a sdoppiarsi a seconda del fatto che canti in italiano o che canti in siciliano. Fate la prova, ascoltate “Tu prenditi l’amore che vuoi”: è un cantato più pulito, con colori diversi, più “internazionali”, sentiti ma quasi distaccati allo stesso tempo. Poi prendete “A Canzuni Addinucchiata”: è un’altra cosa, c’è dentro il dolore di un popolo, un’altra e completamente diversa tensione interpretativa, una sporcatura vocale che è una ferita aperta e sanguinante.
“Cummeddia” è un disco politico (discorso che, probabilmente, lo ha un po’ penalizzato in vari frangenti, faccio un esempio rapidissimo: cinquina del Tenco, dove è abbastanza scandaloso che un disco del genere non sia entrato, al di là degli attriti che qualche anno fa ebbe col Club e con quella masnada di farabutti di bassissima lega che è la Siae. E comunque sicuramente Cesare non si starà curando molto di ‘sto discorso) dal primo all’ultimo pezzo. E’ un disco politico già nel momento in cui riesce a fondere Nick Cave con Orazio Strano e con i Tinariwen, nell’essere riuscito a trovare il giusto bilanciamento delle varie commistioni e delle varie influenze, non solo letterarie: riesce a scavare nel folklore siculo, ma contemporaneamente scopre le radici della storia e le intreccia con suggestioni letterarie. E’ un lavoro carnale, profondo, schierato ed anarchico allo stesso tempo.
E’ un disco essenziale. Ed anche qui il significato è duplice.
E’ essenziale dal punto di vista “tecnico”: non c’è una nota in più di quelle che dovrebbero esserci, non c’è una parola in più di quelle che andrebbero dette. Schietto e crudo.
Ed è essenziale perché di lavori del genere ce n’è bisogno: ti fanno capire meglio un popolo pur parlando da senza patria e, proprio per questo te ne fanno scoprire altri tre. Ti danno uno sguardo lucido e spietato sul presente, presente che diventerà tanto continuato da diventare contemporaneità, scavando nella peste e smascherandola.
E’ un album diretto. Una fucilata.
E’ fuoco che brucia e distrugge tutto quello che incontra sul suo cammino.
Come un asteroide.
O meglio, come una cometa.
Articolo del
08/09/2020 -
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