Mi è capitato spesso di parlare del mio animo punk.
E, almeno finora, ho sempre definito “punk” la mia attitudine. “Punk” come brutta, sporca, cattiva, a tratti arrogante e scostante. Insomma, stronza ed antipatica.
Come quella volta che, per un 25 Aprile a Corleone, ero stato chiamato per fare un monologo comico (tipo stand- up comedy), smerdai il Presidente del Consiglio comunale “solo” perché, intervenendo prima di me, si era ingarbugliato in un ginepraio di discorso in cui si affastellavano Vittorio Fo (cugino di Dario, scoperto per l’occasione), improvvisamente diventato fascista, e la libertà di pensiero. Insomma, una robaccia letta male da Wikipedia cinque minuti prima di parlare e riferita, peggio, cinque minuti dopo.
Io non gliela perdonai e cominciai il mio monologo con un “Ero stato chiamato per far ridere, ma vedo che c’è chi mi ha preceduto”, fra le risate sotto i baffi della metà dei presenti, le facce smarrite dell’altra metà, che evidentemente conoscevano ben poco il sottoscritto e lo sguardo affilatissimo del suddetto Presidente del Consiglio, che era rimasto, incautamente, in prima linea.
O come quell’altra volta, la mia seconda (e probabilmente ultima) da stand- up comedian, in cui, chiamato a fare da tappabuchi per prendere tempo, ad un saggio di danza per lo più caraibica ebbi l’ardire di uscirmene con qualcosa del tipo “Ed Sheeran ed il reggaeton sono il peggio che abbiamo al momento, le due cose che più in assoluto fanno cagare, figurarsi quando son messe insieme”, andando sempre fuori dal monologo che mi ero preparato, solo perché l’ultima canzone prima del mio intervento era stata esattamente una di Sheeran montata su una base reggaeton. Il discorso di cui sopra è una ovvietà enorme, non ci vuole nessuno spirito rivoluzionario per dirla, è solo evidente e sotto gli occhi di tutti. Però, dal momento che siamo dominati dai “buoni sentimenti”, da quando siamo diventati più petalosi, moralisti e melensi di un post di Lorenzo Tosa, anche le ovvietà hanno un peso e nessuno le dice più.
Ecco il momento esatto in cui un gesto normalissimo come, per quanto mi riguarda, fare il mio lavoro, ossia dire cosa mi piaccia o meno fra le uscite musicali, diventa un’azione sovversiva senza precedenti. Uno squarcio del velo di Maya, un fischio del treno pirandelliano. Con la gente che ti guarda con gli occhi fuori dalle orbite come se avessi appena detto di essere uno stupratore abituale di suore.
Sono due lati di “punk”, il primo “autoctono”, viene dall’essere carogne, nel senso più alto del termine, il secondo è frutto di una costante e continua repressione verbale, una caccia alle streghe esercitata sul nostro pensiero e, peggio ancora, sul nostro vocabolario. E dico “peggio ancora” perché, cito Giorgio Montanini, le parole, quando si reprimono e le si carica di negatività, prima o poi scoppiano. E quando scoppiano, poi fanno lo stesso rumore di un sacchetto di plastica che scoppia in chiesa. Durante la consacrazione. Per un funerale.
Tornando al mio lato punk musicale, quello più o meno presumibile, a seconda di chi mi conosce, non è un punk puro: mi fanno impazzire gli esperimenti dissonanti di Thurston Moore e Lee Ranaldo (sì, ho provato anche io a mettere le bacchette della batteria fra manico e corde di Layla, che è la mia chitarra elettrica) dei Sonic Youth o di Steve Albini e gli Shellac, la potenza di fuoco degli Hüsker Dü e dei Wire, quella più “sghemba” dei Violent Femmes e dei Meat Puppets, la passione militante dei Clash e l’animo intimo, straziante e straziato dei Joy Division e di quel genio sfavillante di Jay Reatard, la teatralità schizofrenica dei Pere Ubu. Oltre a questo, mi mandano letteralmente in brodo di giuggiole i muri di suono alla My Bloody Valentine, è quasi l’unico caso in cui mi sta bene l’amplificatore con il riverbero a palla. Da questa base, vedendomi costretto, per mio gusto, a cercare qualcosa in italiano (sono molto pigro, mi secca cercare le traduzioni su internet, ancora di più mettermi a tradurre in prima persona), mi sono divertito a trovare i vari corrispettivi, approdando a Il Teatro degli Orrori (la parte più strettamente militante), agli Zen Circus ed ai primi Gazebo Penguins per la componente che sopra ho definito “sghemba”, a La Notte dei Lunghi coltelli ed ai Ritmo Tribale per la potenza, ai Marlene Kuntz per l’aspetto più intimo, ai Cccp- Fedeli alla linea per le performance e, successivamente, ai Csi ed agli Afterhours come ingredienti distorti, dissonanti e da “muro di suono” di questo cocktail incredibile.
Ho citato non a caso Ritmo Tribale e Csi. I Ritmo Tribale sono stati un po’ i padri italiani di quel rock potente come palle di cannone, soprattutto nel primo periodo, con Edda alla voce. Mentre fra i Csi militava Gianni Maroccolo. Se dovessi elencare tutte le uscite, le collaborazioni e le produzioni (cito giusto “Del mare la distanza”, di Miro Sassolini, che è un capolavoro che tutti dovrebbero conoscere) di Gianni mi servirebbero tre articoli, gli stessi che dovrei impiegare per parlare dell’importanza di Stefano Edda Rampoldi per la musica italiana.
Per cui, dal momento che, durante la quarantena, hanno deciso di fare un album distantemente insieme, beh… parlo di quello e facciamo prima.
Anche perché è la prima volta che mi capita di scrivere un pezzo su qualcosa che ancora ufficialmente non esiste: “Noio; volevam suonar” (il titolo dell’album, con tanto di chiara ed apprezzatissima citazione al Totò di “Totò, Peppino e la malafemmena) uscirà fra qualche giorno, il 30 giugno ad essere precisi, ed è quasi uno spin off di “Alone Vol. IV”, il disco perpetuo di Gianni, giunto, come detto, ormai al quarto capitolo. Parlo di spin off perché già all’interno di “Alone” (di cui parlerò a parte, fra qualche articolo, quindi spoilero poco) c’è un duetto con Edda, in verità ospite ed amico di vecchia data di Marok, ed è proprio sulle note di “Sognando”, pezzo riproposto anche qui.
Ma comunque, andiamo per gradi, snoccioliamo un po’ di roba.
Il manifesto dell’album (e, volendo, anche delle due personalità artistiche) sta già in “Maranza”, pezzo di apertura: “ti spiego chi siamo, odiamo i Negramaro”. E’ un brano giocato su un ritmo martellante, scandito dal basso sporco di Maroccolo. Edda si presenta come “Prospero”, come il mago de “La Tempesta” shakespeariana, ed in qualche modo ci prende anche: la fusione perfetta fra la sua voce, giocata sull’ottava alta, ed il ritmo infuocato dà davvero la sensazione di qualcosa di soprannaturale. Discorso valido anche per la parte melodica a metà brano.
“Servi dei servi” è un pezzo meno galoppante del primo, seppur non si possa parlare di “brano calmo”. Il testo è incendiario (“oggi la polizia la facciamo scappare”), parla di centri sociali e di rivolte, ed è, come sempre, retto dal basso di Gianni, mentre Edda ci mette la chitarra, in un brano dai fumi punkeggianti e lo- fi.
“Noio” è una versione 2.0 de “La guerra è finita” dei Baustelle, un ritmo molto marcato, praticamente marziale, su cui le trame del basso di Maroccolo risultano la cosa più riconoscibile, mentre Edda, per il tono salmodiante, ricorda Giovanni Lindo Ferretti.
Il delirio di atmosfere continua con “Stai zitta”, che è forse il pezzo che più di tutti rende onore all’alchimia perfetta che c’è fra Gianni e Stefano: un tappeto di synth su cui il basso guizza felice, fra arpeggi ed ostinati, e la voce di Edda armonizza in maniera fantastica, scalando a piacimento fra le varie ottave. Pezzo dalle atmosfere decisamente noir, racconta, in un turbinio di immagini, dell’odi et amo fra un brigatista e sua moglie.
Altra canzone, altra nuance musicale, “Madonnina” gioca su un’atmosfera rarefatta, cavalcata dalla solita, splendida, linea di basso, ma con interventi di chitarra ed elettronica ad arricchire. E’ un pezzo celestiale e celeste, non solo per quel “madonnina infilzata di blu”: il suo ritmo cadenzato trasporta proprio in un’altra dimensione, quasi solleva da terra.
Il funk infuocato di “Bebigionson” è un fantastico omaggio ad uno dei nomi seminali della musica lo-fi, Daniel Johnston. Ritmo incandescente, chitarra elettrica in mostra, basso che crea dinamismo ed un testo caustico in pieno stile Edda. Tanto per citarlo, “un impiattamento leggermente meneghino, per finire a pecora sui Matia Bazar”, in un testo che alterna ricordi del proprio vissuto, ironia tagliente ed uno sguardo lucido sul presente.
“Esce il sangue dalla neve” apre quella che potremmo definire la seconda parte del disco, quella fatta di una enorme tensione spirituale. E’ un pezzo di Edda ed Alessandro Grazian, riarrangiato da Maroccolo e da Flavio Ferri dei Delta V. Ne viene fuori un pezzo denso, un crescendo musicale ed emotivo, reso ancora più carico di pathos dall’interpretazione incredibile che tira fuori Edda.
La scoperta dell’album è “Achille Lauro”, un atto di stima nei confronti di un artista molto “hegeliano”: o lo si ama o lo si odia, sicuramente è difficile essergli indifferenti. Edda e Marok lo omaggiano già solo comprendendone perfettamente il linguaggio, chè “Achille Lauro” è un brano che potrebbe tranquillamente stare in un suo album. Come sempre, basso incalzante e chitarra elettrica a scandire la ritmica.
Uno dei capolavori dell’album, confermato anche in “Alone vol. IV”, è “Sognando”, cover da Don Backy. Interpretazione fantastica, quella di Edda, straziante e straniante. L’intervento musicale di Gianni Maroccolo sposta il pezzo verso una dimensione dark, le chitarre elettriche hanno il compito di allargare il pezzo, mentre il basso continuo ne regge le trame, tirando fuori un pezzo sporco ed emozionante.
Altro momento molto poetico è il “Mantrino” che Marok musica e che Edda recita. Si tratta di due mantra ben auspicanti di tradizione Vaisnava, su cui Maroccolo intesse delle trame rarefatte e delicatissime, mentre la voce di Edda si staglia, salmodiante.
Quello che è, per quanto mi riguarda, il momento più alto dell’album coincide con la sua fine. Che detta così, mi rendo conto, fa anche abbastanza ridere. In verità l’ho detto perché la traccia che chiude il disco è “Castelli di sabbia”, altra cover, stavolta da quel genio incredibile e sfavillante che fu Claudio Rocchi. Una versione colorata di psichedelia, avvolgente e caleidoscopica. La voce di Edda si fonde alla perfezione con il clima strumentale languido, tirando fuori l’ennesima interpretazione perfetta. Degna di ogni attenzione è anche la coda di pianoforte finale, dinamizzata dai contrappunti di basso, che, con la voce di Edda in lontananza, mi ha ricordato molto la chiusura di “Del Mondo”, dei C.S.I. in “In Quiete”.
Considerazioni finali: Gianni Maroccolo conferma di essere una specie di Re Mida, che trasforma in oro tutto quello che tocca, mentre Edda conferma quanto sia importante, per testi, riconoscibilità nel timbro, stile nel tenere la ritmica con la chitarra, la sua presenza nel panorama musicale italiano. Insieme confermano che se si è grandi artisti bastano anche un IPad, un Mac e dei synth per fare cose incredibili. “Noio; volevam suonar” cresce e cattura ascolto dopo ascolto, è un album lucido, ironico, tagliente ed emozionante, una prova artistica enorme, un concentrato di esuberanza artistica, di studio e ricerca.
E di tanta, ma tanta, vita vissuta e musica suonata.
Articolo del
26/06/2020 -
©2002 - 2024 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|