Mi rode il culo. Ma proprio tanto. Non per voler avere l’inizio ad effetto, no. Mi rode il culo, ed è un dato di fatto.
Essenzialmente perché, nei miei programmi (e nelle mie volontà), prima di questo pezzo ce ne sarebbero dovuti essere almeno altri due. Caso ha voluto, però, che la famigerata DaD, la didattica a distanza, si mettesse fra me e la scrittura. Intendiamoci, lo ha fatto in modo indiretto, tramite mia madre, cui ho fatto da tecnico in questi mesi di scuola a distanza. Però, se già era non esattamente gradevole andar preparando lezioni su piattaforme più o meno agevoli, meno ancora lo è stilare relazioni finali, tabelle con valutazioni ed altre fesserie simili. Tanto più che i criteri delle suddette tabelle toccano vette di imbecillità che in confronto Reinhold Messner, scalando l'Everest, ha fatto una gita in collina.
Non nego, perciò, di essere stanco, molto stanco. Ed anche scazzato. E la cosa che più mi preoccupa è che non vedo nessun segnale di ribellione da chi la scuola la fa: in un mondo normale ci sarebbe stata una vagonata di indignazione già per la sola forma di quanto scritto nei vari modelli, pensati evidentemente da un gorilla sotto psicofarmaci. E invece niente di niente, solo una rassegnazione maggiore della mia.
Capirete che le mie condizioni psicologiche non siano esattamente delle migliori: in questo momento abbino giovialmente la simpatia di Odifreddi, il garbo e la temperanza di Mike Patton dei Faith No More e la dolcezza di Bin Laden. Insomma, statemi lontano e lasciatemi blaterare in santa pace.
Perché, vi chiederete (e se non lo fate, sticazzi, tanto se siete qua state comunque leggendo), comincio una recensione parlando di DaD? Il paragone è abbastanza scontato: chi ha pensato la DaD non ha mai messo piede in classe manco per sbaglio, parimenti chi si è occupato delle misure governative per il mondo dello spettacolo non ha mai visto, neanche da passante occasionale, la peggiore recita da oratorio alla sagra del manfricolo di Avigliano Umbro.
Con la conclusione che stiamo perdendo tanto, troppo. E in istruzione e in cultura, che poi sono due cose che vanno di pari passo, fondamentalmente.
Consequenzialmente stiamo disimparando ad immaginare, a vedere le parole come dipinti (o fotografie, fate voi. Io, essendo fan di Kaspar David Friedrich, tendo un po’ a vedere tutto con quella coltre di nebbia, tanto immaginifica quanto austera, del “Viandante sul mare di nebbia”), ed a fare in modo che un testo ci possa guidare verso terre sconosciute o, al contrario, decisamente conosciute.
Fortunatamente gli antidoti esistono anche per le malattie dell’immaginazione, e spesso si presentano nella forma rotonda di un cd o di un vinile. Anche stavolta, quindi, strano a dirsi, siamo (ho una così alta stima di me stesso che uso il plurale majestatis, esattamente) qui per parlare di musica. E di un album che, in qualche modo, mi appartiene. Sicuramente dal punto di vista della provenienza geografica.
Sarò sincero: fino a neanche troppo tempo fa né Colapesce né Dimartino mi entusiasmavano più di tanto, colpa di frequentazioni sbagliate e di cialtronerie sparate da qualcuno che, semmai avesse effettivamente ascoltato la loro musica, lo aveva certamente fatto con le orecchie ben tappate da abbondante bambagia.
Poi, quando uscì, mi sembra gennaio dello scorso anno, ascoltai “Afrodite” di Dimartino in loop per almeno una settimana. Stupendo. Da lì il definitivo fischio del treno, che mi ha fatto avidamente recuperare “Un meraviglioso declino” e poi “Cara maestra abbiamo perso” , album che non è mai stato così attuale, ndr, o “Un paese ci vuole” o ancora “Egomostro”.
Poi è arrivato “I Mortali” . L’ho ascoltato ieri sera, su per giù alle 00.01, all’uscita. L’impressione immediata che mi ha fatto è stata quella di essere un disco decisamente estivo, da ascoltare al tramonto sulla Scala dei Turchi o sulla scalinata del Duomo di Modica. Pensavo che ascoltato nei mesi invernali avrebbe perso un po’ della sua carica immaginifica.
Invece, per uno strano gioco di casi e coincidenze, nel momento in cui scrivo la giornata è decisamente invernale, cosa non comune già di suo in Sicilia, figurarsi al cinque di giugno. Riascolto l’album alla (non) luce di una giornata cupa, e ne esce incredibilmente rafforzato, è ancora più nostalgico ed evocativo. Come diremmo noi siculi, “va scància e porta ‘a casa”, letterariamente “prendi e porta a casa”.
Con “I Mortali” Colapesce e Dimartino concretizzano un qualcosa che era nell’aria da tempo, era chiaro che, prima o poi, avrebbero combinato qualcosa insieme, rientrava nel corso ininterrompibile degli eventi. Così come faceva parte del corso delle cose il fatto che il prodotto finale sarebbe stato qualcosa di assolutamente clamoroso.
L’album si apre con “Il prossimo semestre”, che è un racconto del lavoro (perché è un lavoro, e ricordarlo non stanca mai) dell’autore- musicista, dei suoi luoghi comuni (-“Ci vuole una mina” –“Eh, mi piacerebbe scrivere per Mina”) e delle sue frustrazioni, in quella che è una versione 2.0 de “Il Merlo”, di quell’artista enorme che fu (e che è) Piero Ciampi. “Ho pochi diritti su questo brano, solo doveri” è un colpo di genio, così come tutta la parte parlata che compone la parte centrale del pezzo, giocato su un pianoforte che fa da spina dorsale. E poi “strofa- bridge- ritornello”.
Sapete che sono abbastanza critico sul cantare l’amore. O meglio, sul modo di farlo. Ecco, Colapesce e Dimartino sono riusciti a trovare un modo incredibile e perfetto di farlo. In “Rosa e Olindo” riescono a far diventare l’amore una cosa talmente universale da uscire dalle sbarre di una galera, da rendere insostenibile il distacco più della stessa detenzione. E’ un pezzo di una delicatezza incredibile, davvero toccante.
“Luna Araba” vede la partecipazione di Carmen Consoli. E non credo ci sia bisogno di aggiungere altro. Un pezzo scritto da Colapesce e Dimartino e cantato insieme alla Cantantessa, per di più con echi battiateschi. Insomma, devo continuare o si è capito che mi ha letteralmente fatto impazzire?
Su “Cicale” mi sono autocompiaciuto per la prima (e credo unica) volta della mia quasi laurea in lettere classiche, intuendo anche senza press kit che si potesse trattare di qualcosa ispirato al “Fedro” platoniano. Oltre a questo, il pezzo che viene fuori racconta ancora della vita da cantautore, alter ego degli uomini cicala mandati dagli dei a spiare gli umani raccontati, appunto, da Fedro. C’è anche un rimando sveviano agli “abbozzi d’uomo”, in quel “Solo i peggiori sopravvivono alle estinzioni”. Belle suggestioni letterarie, montate su un gran testo.
Molto bello il rimando a Brassens (ed al mio Faber) di “Parole d’acqua”, pezzo che ha la grande capacità di restituire pienamente quell’atmosfera da “poteva essere ma non è stato e comunque va bene così”, espressa alla perfezione nel ritornello, “Se le ipotesi fossero germogli io le annaffierei dando dignità a queste parole d’acqua”.
“Raramente” è un pezzo elegantissimo, che con le sue atmosfere fa davvero scoprire “com’ è la marea”, ti ci trasporta dentro, suonando elegante e leggero, uno di quelli che più di tutti rimane in testa.
La quota ballad dell’album è “L’ultimo giorno”, pubblicata a gennaio, ma diventata, col senno di poi, quasi premonitrice, e nella stessa sorta di “fine del mondo”, e nella situazione dei protagonisti del pezzo. E conferma quanto chi è davvero bravo è anche in grado di guardare avanti e saper leggere il mondo circostante.
“Noia mortale” ha quel carico di disillusione che me la rende molto affine, oltre ad un certo quid leopardiano. E’ un gran pezzo, ben scritto, con un ottimo bagaglio di poesia visionaria nel testo, molto bello il passaggio “Siamo stati sorpresi, delusi da sogni meravigliosi, da uragani violenti con nomi di donne”. E, soprattutto, racconta di una condizione, quella della noia, che più umana non si può, e, proprio per questo, degno di grandissima nota.
“Adolescenza nera” è il pezzo più visionario dell’album, fra harmonizer, tratti urban e venature gospel. Mace alla produzione e la voce straordinaria di Carolina Bubico ai cori completano un pezzo incredibile, pieno di nostalgia.
“Majorana” è un pezzo autobiografico. Non solo per Antonio e Lorenzo. E’ autobiografico (o meglio, biografico, in questo caso) per molti siciliani, “scomparsi” (o forse costretti a scomparire dalle circostanze) dai loro paesi d’origine. Anche qua la nostalgia si intreccia alla perfezione con la vita vissuta, in un continuo rincorrersi di sparizioni e riapparizioni. E’ un pezzo morbido, fluttuante, forse l’unica chiusura possibile di un disco come questo.
C’è una cosa di cui, avrete notato, non ho praticamente parlato, ed è l’aspetto musicale. Non l’ho fatto perché il discorso da fare è abbastanza ampio, e parte da quell’idea, totalmente sballata e senza nessun riscontro reale, che il pop faccia cagare. Ecco, dipende da che pop si ascolta. “I Mortali” è un album pop, coscientemente pop. Ed è bellissimo. È un pop fatto davvero bene, corposo e denso ma al contempo rarefatto ed immaginifico. Ha degli arrangiamenti con quattro paia di palle, a cominciare dalle linee di basso, che sono incredibili (soprattutto “Luna Araba”, “Cicale” e le progressioni armoniche del ritornello di “L’ultimo giorno”), per continuare con le schitarrare elettricamente ruvide di “Luna Araba” o il delicato pianoforte di “Il prossimo semestre”. Tutto questo è montato sopra un tappeto di elettropop urbaneggiante perfetto, che si incastra alla grandissima con le due voci.
A proposito delle voci, anche il loro incastro (e scusate la ripetizione) è qualcosa di meraviglioso: la voce limpida e cristallina di Dimartino che si fonde e si amalgama perfettamente con quella più sporca di Colapesce. Praticamente gli arrangiamenti perfetti per le voci perfette. C’è un profondo studio, o meglio, una ottima applicazione degli studi stilistici di Colapesce e Dimartino: le atmosfere in stile Battiato si integrano perfettamente con quelle alla Tame Impala, con un risultato che non esito a definire memorabile.
Insomma, siamo davanti ad una lezione di pop abbastanza alto.
È un racconto perfetto della Sicilia, un modo perfetto per farla riconoscere a chi è siciliano e conoscere a chi non lo è. Profuma delle sue atmosfere languide e sospese fra nostalgia e disillusione. In più, come detto, parla dell'uomo, lo fa con parole semplici ma pesate, mai banali, che riescono a creare un vortice di emozioni, dagli occhi lucidi ai sorrisi, fino a far respirare una fresca e piacevolissima ventata di libertà.
Un disco che mi ha fatto passare lo scazzo di cui parlavo all’inizio.
Articolo del
05/06/2020 -
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