C’è una bella, bellissima, frase di Italo Calvino, uscita dalle sue Lezioni Americane, che recita pressappoco così: “Prendete la vita con leggerezza. Che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall'alto, non avere macigni sul cuore” .
Mi sembrava la frase migliore per raccontare di un grande poeta dei nostri tempi, uno che la leggerezza calviniana la sa utilizzare come nessun altro, ritagliandosela a misura di volta in volta e dipingendoci sopra mille sfumature diverse. Sto parlando di Brunori SAS, al secolo Dario Brunori, fresco di uscita con “Cip!” ed il suo bel “pettirosso da combattimento” (nel momento in cui scrivo è l’undici gennaio, giorno in cui un altro grandissimo poeta ha salutato questa dimensione, la citazione era quantomeno doverosa, ndr) stampato in copertina.
“Cip!” segue “A casa tutto bene” ; uscito quasi quattro anni fa. Lo segue temporalmente ma non concettualmente: dove, infatti, “A casa tutto bene” parlava del nostro tempo “liquido”, parafrasando Baumann, e delle nostre paure, “Cip!” è più spostato sul versante sentimentale, Brunori ci tiene a cantare l’amore, cantarlo in tutte le sue declinazioni, ma comunque senza nessuna melensaggine (cosa importante e non scontata). E’ un album che non esito a definire “antropocentrico”: il protagonista è l’uomo (anzi, meglio, la coppia), lo sfondo, il mondo circostante, le sue tensioni e la vita che scorre.
Ed, a proposito di vita che scorre, ci sono due frasi di due testi che esprimono meglio di ogni mio possibile commento inutile e non richiesto cosa Dario pensi della caducità della vita e della determinatezza dell’esistenza umana sulla Terra. La prima è da “Fuori dal mondo” , fa “Noi che siamo contenti anche nei giorni infelici, perché quello che muore nutre le radici” , la seconda è presa da “Quelli che verranno” , e recita “Achille guarda la luna, e in un attimo lo capisce che la vita è una stella cadente che illumina il cielo e poi sparisce.” Credo abbia detto tutto lui.
Ma questo parlare dei testi mi dà l’occasione di focalizzare un momento il ruolo che Brunori sta occupando attualmente nella scena italiana. Lo faccio “confrontandolo” con altri due bravissimi artisti, al momento i miei preferiti, insieme, ovviamente, a Dario. Parlo di Francesco Motta ed Andrea Appino. Tutti e tre hanno in comune una forma di scrittura molto intima, quasi individualista, che mette, appunto, l’uomo al centro ed il mondo circostante a fare da cornice. Ma c’è, nel modo di poetare di Appino e Motta, un cripticismo che invece manca a Brunori: la sua poetica non dà “scampo”, i suoi testi sono cazzotti in faccia, seppur dolci e delicati. Riesce ad essere, contemporaneamente, intimo ed universale. E’ una caratteristica, questa, che lo fa avvicinare, più che a un Dalla o ad un Gaetano (che di tanto in tanto riecheggiano nelle linee vocali), ad un Guccini, non a caso mirabilmente omaggiato nel disco tributo.
Musicalmente il disco si distacca un po’ dai precedenti lavori del nostro, è molto più orchestrale, ed in questo si sente la mano di Taketo Gohara, produttore che già col Motta di “Vivere o morire” aveva mirabilmente inserito delle parti sinfoniche in un ambiente apparentemente poco propenso. E’ un album dalla ritmica incalzante, molto movimentato. Il glockenspiel su “Il mondo si divide” e “Per due che come noi” è una chicca meravigliosa, così come molto acuto è l’uso dello slide su “La canzone che hai scritto tu” , alla quale fornisce un ulteriore tocco di languida dolcezza, e sempre “Per due che come noi”. Interessante e ben riuscita la commistione fra archi e toni più rock in “Capita così” . Molto bello il mandolino di “Bello appare il mondo” , altrettanto la sua sezione fiati che strizza l’occhio ai mariachi, mentre l’inizio di “Mio fratello Alessandro” mi ha piacevolmente riportato verso i suoi primi lavori, in un pezzo arricchito da un meraviglioso sax molto 70’s. Struggente l’arpeggio di piano di “Quelli che arriveranno” , che, per testo e musica, è una chiusura del disco da groppo alla gola.
Rimanendo in un ambito più “tecnico” risaltano per ricercatezza “Benedetto sei tu” , con basso e batteria martellanti ed i fraseggi di tromba, in un pezzo dal respiro baustelleggiante nelle dinamiche, e “Fuori dal mondo” , che ci regala una linea di basso spettacolare, montata su un pezzo dalle forti tinte ritmiche brasiliane.
Insomma, “Cip!” è un ostinato canto di calda speranza in un tempo gelido e, se tre anni fa avevamo imparato a liberarci dalle paure di un tempo liquido, adesso dobbiamo imparare a disinnescare, a stemperare ed a ricostruire. Con amore, con l’amore. Cinguettando.
Voto all’album: parto col botto, 9.
Pezzo preferito: “Al di là dell’amore”. Lo sapete, sono attratto dalle canzoni “impegnate”, questa è la più impegnata dell’album e, musicalmente, è anche fighissima. Fate un po’ voi…
Articolo del
13/01/2020 -
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