Uscito ad inizio ottobre per l’etichetta bolognese IRMA Records, ”Abbey Song” è il disco d’esordio del progetto musicale Réseau. Composto da Sara Pittavini e Fabrizio Fratepietro, versatilissimo batterista e percussionista romano in passato al fianco di importanti cantautori nostrani come Pino Marino e Riccardo Sinigallia, questo interessante duo nasce ufficialmente nel marzo del 2007 con l’intento di dare vita ad un sound capace di miscelare elettronica e jazz e di portare poi on stage uno spettacolo volto a sfruttare molto sia gli interventi di tap dance sia le ammalianti proiezioni video curate proprio dalla co-fondatrice del (mini) ensemble residente in pianta stabile a Perugia. Del resto, come recita il comunicato stampa ufficiale della produzione in questione, «lo spettacolo audio/visual dei Réseau, nella sua eterea visione, sperimenta nuovi paesaggi artistici, attraverso l’ausilio di composizioni video originali che accompagnano ogni singolo brano creando uno spazio multi-scenico di suggestioni visive». In “Abbey Song” sono presenti nove tracce inedite (oltre alla rivisitazione di Caravan di Duke Ellington) le cui musiche sono state scritte, sviluppate e infine arrangiate da Fratepietro, ben lieto poi di andarle poi ad arricchire attraverso i preziosi contributi di tantissimi amici e colleghi che si sono avvicendati nel corso delle recording sessions. Pino Pecorelli, Pedro Spallati, Claudio Corvini, Nicola Polidori, Filippo Clary, Daniele Tittarelli: davvero nutrito il numero di persone intervenute in studio. Persone, strumentisti, in grado di dare un tocco ancor più raffinato a delle musiche già di per sé alquanto eleganti e strutturate non solo con gusto ma anche e soprattutto con sensibilità. Nonostante il tocco sostanzialmente lounge, le composizioni di questo disco si guardano bene dall’apparire patinate ed effimere. Questo perché in fin dei conti è l’impronta assai matura e poco pacchiana a dare un taglio assolutamente intrigante all’intero lavoro. Lavoro in cui l’utilizzo di strumenti diversissimi tra loro va inevitabilmente a rendere di volta in volta particolarissime, variegate, le sfumature. Difficile riscontrare episodi meno riusciti di altri. Inutile invece, data l’enorme coerenza dell’album, descrivere traccia per traccia una produzione discografica in cui, come già annotato sopra, è il sapiente mix di peculiarità elettroniche e di elementi jazzistici a risultare costante, se non perenne, e a costruire un marchio di fabbrica in bilico tra echi retrò e connotati moderni di matrice nordeuropea. Un disco, “Abbey Song”, da ascoltare con attenzione e, se possibile, in cuffia. Guai a considerarlo come un Lp da mettere in sottofondo durante cenette e festicciole casalinghe. Qui c’è grande ricerca sonora, e per questo sarebbe un grave errore non andare a rintracciarla e quindi a contemplarla.
Articolo del
28/11/2013 -
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