C'è una oscura copertina con tre croci bianche ad accompagnare 'Callus', quasi la metafora di un calvario in attesa di vittime e carnefici. È il ritorno di Gonjasufi, lo ieratico maestro di yoga disperso nel Nevada, che oramai sei anni fa ci stupì con il gioiello di sonorità distorte, battiti possenti, parole soffocate e urla strascicate di 'A Sufi And A Killer', accompagnato dal fido manipolatore di suoni e vicino di casa Gaslamp Killer. Una miscela che univa i latrati di un Tom Waits minore e fattone, con un'elettronica sghemba, acida e percussiva.
Ora torna da solo, Gonjasufi (al secolo Sumach Ecks, o meglio Sumach Valentine), sempre immerso in quel mood. Con 19 pezzi e 52 minuti di musica che sembra suonata stando sprofondati in sotterranei sepolti da epocali catastrofi: fomentando l'apocalisse. Si tratta al solito di un disco indefinibile. Con pezzi spesso solo abbozzati, frammentati, tagliati, accennati: prototipi di suite che non arriveranno mai. Come la salvezza, per le vittime e i carnefici.
Attitudine iper lo-fi, ruvidezza nella voce, tra rimbrotti e latrati, distorsione nei bassi, un sitar bistrattato, rumori di fondo, sbavature analogiche, sconquassi digitali, batteria praticamente sempre storta, sin dall'inizio, sotto gli applausi di Your Maker, e qua e là la chitarra del nostro amato The Cure/Pearl Thompson a tessere quell'oscurità devastante che accompagna l'intero lavoro. A cominciare dagli inserti nel secondo pezzo Maniac Depressant, una sorta di manifesto dello stato d'animo cupamente depressivo che da lì in poi si impossessa di un'atmosfera a tratti malinconica, altre nevrotica e rabbiosa, quasi sempre crepuscolare, a volte sofferente, come in Ole Man Sufferah che evoca nenie ancestrali.
È sicuramente difficile rintracciare un filo conduttore in questa frammentata narrazione delle distopie quotidiane, passate e future. Eppure The Kill suona come una breve ouverture sinfonica di un'opera al nero, che prosegue con i loop e la batteria di Prints Of Sins per trovare il suo acme nella distorsione e nei tamburi teutonici di The Conspiracy, quindi negli altri due pezzi suonati da Thompson, forse tra i migliori, le dissolvenze manipolate di Poltergeist e quella che è solo l'allusione di una hit, con le movenze pseudo-indie di Vinaigrette. Poi si chiuderà con gli arpeggi e i malinconici suoni siderali di Last Nightmare, ma in mezzo ci sono da ricordare il ballo scomposto di Krishna Punk con il suo inno anti-corporation (Kill the Corporation) e i battiti possenti di Devils che in un live potrebbero essere devastanti e prolungati.
Alla fine si rimane interdetti. L'aspettativa era forse troppo alta. E la delusione è prossima. Eppure c'è del talento sconfinato in questo pulviscolo di possibili composizioni che Gonjasufi sembra voglia solo centellinare. Un oscuro diamante di ardente potenza sonica, immerso in una sconclusionata e cupa stanchezza che non ammette vie di fuga. Si rimane catturati da quella che è una malsana, claustrofobica, colonna sonora di questi nostri insondabili tempi. E Gonjasufi si staglia come un nero profeta appartato, disinteressato anche ai propri seguaci.
Articolo del
17/09/2016 -
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