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Ho disgraziatamente mancato i concerti dell’estate 2007, quando Lou Reed venne in Italia a proporre la rappresentazione del “concept-album” “Berlin” (a Roma la stessa sera suonavano i Rolling Stones, e una scelta bisognava pur farla...), né ho ancora avuto modo di vedere il film di Julian Schnabel girato durante le “prime” dello spettacolo, il 15 e 16 dicembre 2006 alla St.Ann’s Warehouse di New York, di cui questo album è, in fondo, la colonna sonora. Pertanto non ho immagazzinato in memoria alcuna immagine che mi accompagni nell’ascolto e mi resta unicamente la musica per giudicare questo ultimo (per ora) atto dell’irripetibile carriera dell’ex-Velvet Underground. E forse è meglio così: il mio giudizio sarà (si spera) più puro e non fuorviato da sensazioni o suggestioni pregresse; così come deve essere, dato che è di un CD che qui si tratta.
La mia opinione sul “Berlin” originario del 1973 è presto detta: uno dei miei dischi prediletti di tutti gli anni ’70. E forse anche il migliore - come album, nel complesso - dell’intera carriera solista di Lou Reed, di cui rappresenta comunque un episodio anomalo per via delle inusuali orchestrazioni e dell’impostazione dolente dei brani che a tratti sembrano quasi da chansonnier. Ma in particolare la (ex) prima facciata di “Berlin” è straordinaria, e include almeno tre capolavori assoluti (“Men Of Good Fortune”, “Caroline Says Pt.1” e “Oh Jim”) in grado di rivaleggiare con quanto Reed aveva già scritto ai tempi eroici dei Velvet Underground. E tuttavia - come riportato dagli annali - “Berlin” fu un clamoroso flop; le vendite furono scarse (specie se confrontate al precedente “Transformer” e ai due successivi populisti album dal vivo) e l’azzardo fu stroncato con foga da una critica che, ormai legata allo stereotipo del Lou Reed rock and roll animal, fece fatica a comprenderne le nuove divagazioni “europeiste”. Solo con il tempo “Berlin” è stato rivalutato. Grazie, da un lato, alla nuova generazione del dopo-punk (ne erano grandi estimatori, ad esempio, Siouxsie & The Banshees e Marc Almond che con i suoi Mambas dette un’eccellente rilettura di “Caroline Says II”); ma anche – ammettiamolo - a causa di un certo progressivo inaridimento del talento loureediano, che ha portato a riscoprire quanto di buono Reed avesse prodotto anche nei momenti meno celebrati dei suoi fertili anni ’70. Dalla debacle di “Berlin” Reed rimase parecchio ustionato, tanto da evitare di eseguirlo in concerto. Questo, fino al dicembre 2006, quando adeguandosi (ma lui non lo ammetterà mai!) alla prevalente tendenza di ripercorrere dal vivo per filo e per segno “seminali” album del passato (vedi Arthur Lee per “Forever Changes” dei Love, o i Sonic Youth con “Daydream Nation”) ha deciso di riesumarlo e risuonarlo; anzi - in una variazione molto loureediana sul tema - di “metterlo in scena” con l’apporto di un nutrito collettivo di amici/collaboratori, tra i quali spicca il produttore originale del disco Bob Ezrin alla direzione musicale.
Come detto, il CD “Berlin Live At St.Ann’s Warehouse” racconta solo una parte dello spettacolo, che – a Brooklyn - includeva anche le immagini narrative di Lola Schnabel figlia di Julian, l’interpretazione dell’attrice Emmanuelle Seigner nel ruolo della tragica protagonista Caroline e un coro simil-greco composto da ragazzi di Brooklyn, il tutto incorniciato da una scenografia (pare) assai suggestiva. A me resta quindi solo la rilettura di “Berlin”, ma non è affatto poco perché – a differenza di altri esperimenti analoghi ma sostanzialmente inutili, come quello di Arthur Lee per il già citato “Forever Changes” – si rivela fin da subito ben pensata e ottimamente calibrata. La band - composta oltre che da Reed stesso, da Fernando Saunders, Tony "Thunder" Smith, Rob Wasserman, Steve Hunter, Rupert Christie e dall’onnipresente Antony Hegarty – dà infatti vita ad una performance più epica e più gioiosa di quanto non fosse nell’originale, e nel complesso decisamente meno dark. A volergli trovare un difetto il tutto suona forse un po’ datato, troppo “anni ‘70”: una sensazione che emerge con prepotenza durante gli assoli di chitarra con cui Steve Hunter (vecchio compagno di strada di Alice Cooper) sembra rievocare l’impolverato fantasma glam di Mick Ronson. Ma tutto poi è, in fondo, ben bilanciato dalla nuova vocalità spigolosa e a tratti quasi rappata di Lou Reed, che stravolge le linee melodiche dei suoi brani – quando non le estirpa tout court quasi alla Dylan – e così facendo rende “Berlin” più sobrio e lo traghetta di fatto nel XXI secolo. Di questa rilettura si giovano in particolare una fenomenale “Men Of Good Fortune” – più scattosa e imprevedibile rispetto all’originale – e i tre brani finali dell’opera, “The Kids”, “The Bed” e “Sad Song” che sull’album portavano l’intreccio ad un fin troppo deprimente anticlimax, ma che qui, grazie anche alla voce “bianca” di Antony e all’etereo coro del Brooklyn Youth Chorus, toccano delle vette di paradisiaca bellezza. Il confronto non lascia dubbi: meglio – di parecchie spanne - le nuove versioni. E anche lo stesso Lou Reed dà l’idea di essersene accorto, se non altro per il fatto di aver affidato alle coralità di “Sad Song” il compito di fungere da inedita intro della saga. Allunga inutilmente il brodo, invece, la postilla a mo’ di bis della velvettiana “Candy Says” cantata da Antony – già sentita altrove –, di una scialba “Rock Minuet” (tratta da “Ecstasy” del 2000) e della solita, ormai scontata “Sweet Jane”. Tutto ridondante, perché “Berlin” in realtà si basta da solo e va sentito dall’inizio alla fine con grande attenzione per ben seguire il filo (come fosse una sorta di “rock novel”) delle drammatiche vicissitudini della viziosa protagonista Caroline nella decadente Berlino Ovest di prima della caduta del muro.
“Dischi così non se ne fanno più”, ha detto qualche irriducibile nostalgico. Ammesso che sia vero (ma non lo è...) allora rivisitare i vecchi capolavori del passato è cosa buona e giusta, purché un tale esercizio sia fatto in modo non pedissequo e aggiungendo agli originali il necessario quid inedito e imprevisto. Gli è dura, ma con questo “Berlin Live At St.Ann’s Warehouse” l’impresa è riuscita discretamente (e sorprendentemente) bene. Tanto di cappello al vecchio, indomito Lou Reed.
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