“Grand Master Mogol”, uscito a fine 2005, aveva trasformato gli Amari nella rivelazione indie del 2006: tour affollato di ragazze e ragazzi che cantano in coro quelli che sono diventati veri e propri inni generazionali per la generazione un attimo sotto al thirty-something, idolatria per i membri del gruppo, assurti quasi a indipendent boy band, grazie ai bei faccini e al coraggio di vestirsi tutti uguali, in squadra, prendendo a prestito i costumi multicolori degli australiani Architecture in Helsinki, ergendosi a novelli Power Rangers delle vite precarie di questo fine primo decennio del XXI secolo. Insomma, un vero fenomeno pop, che fosse stato sostenuto da una campagna mediatica come si deve e come sanno fare lassù in Inghilterra, sarebbe divenuto di massa, coniugando piacevolezza, contabilità, modernità e intelligenza, e invece è rimasto confinato dentro la nicchia indie dati i noti limiti imprenditoriali della discografia nostrana. Alla Warner però qualcuno s’è accorto delle potenzialità del gruppo udinese e della sua etichetta, la Riotmaker, e, voilà, ecco concretizzato un contratto di distribuzione. Speriamo che la Warner faccia lo sforzo di promuoverlo anche, questo nuovo “Scimmie d’amore”, davvero bello, e il cui unico torto è quello di venire dopo un capolavoro come “Grand Master Mogol”. “Scimmie d’amore” non gli è affatto inferiore, anzi forse è più bello: segna una crescita complessiva degli Amari, dal punto di vista musicale, testuale, esistenziale. I thirty-something crescono, si potrebbe dire; cuore, muscoli e lacrime, come da copertina, le loro coordinate: ovvero passione, animalità e, ahimé, dolori e nostalgie. Scimmie d’amore, appunto, fragili umani che si lasciano alle spalle la giovinezza, quella vera, e diventano piccoli uomini in un corredo di malinconici ricordi d’un beato tempo che fu (gli anni 80 di “Manager nella nebbia”) e chissà se fu mai tale, desideri di essere già vecchi (“30 anni che non ci vediamo”), paura e orgoglio di essere soli, novelli adulti, in un mondo senza più certezze (“Fiamme in un bicchiere”), vortici di misunderstanding in cui le parole e i gesti sbiadiscono di significato: così “faccio il bullo in stazione” ma “forse piango”; “è solo un raffreddore, e non sangue di naso”, innamoramenti per chi non ci vuole e negazioni di sé a chi ci vuole (“Le gite fuori porta”, “Il raffreddore delle donne”, “Arpegginlove”, “Ice albergo”). Ahimè, bei tempi, quelli in cui c’erano “Parole vere in un mondo vero”: ora tocca, smarriti “nella nebbia”, schivare “alberi e pali”, “cercando cartelli stradali”. Come succede solo nei capolavori, alla tematica dei testi fa esatto riscontro la costruzione sonora: e i mitizzati anni 80, perché anni dell’infanzia, età piena di certezze per definizione (in una sorta di versione intimista e apolitica degli Offlaga Disco Pax), spuntano nelle musiche, impregnate dell’old school hip hop di Afrikaa Bambataa e Run Dmc, dei Cure di “Disintegration” (“Scimmie d’amore” li cita consapevolmente), antologie dei ricordi rivisti e filtrati alla luce dell’oggi (appunto), in primis dall’indietronica dei Lali Puna (“E2 E45”). Ma i grandi fantasmi che agitano testi e musiche di ”Scimmie d’amore” sono Battisti e Mogol. Del secondo, già omaggiato nel titolo dell’album precedente, per esplicita ammissione della band, torna tutta la tematica dell’incomunicabilità e dello smarrimento esistenziali. Versi come “noi non ci conosceremo mai / L’unica cosa che facciamo è ricordarci che saremo sempre estranei / Sceglier quale letto sceglier se dormirci dentro” paiono scritti da un Mogol trentenne d’oggi; così “Quante luci ho seguito nella notte / Schivando alberi e pali” omaggia espressamente “Sì viaggiare”. Del primo, viene recuperata la seconda metà dei 70 e gli inizi degli 80: i finali di “Le gite fuori porta” o di “Arpegginlove” paiono uscire dritti dritti da “Una donna per amico” (l’album); i violini e i coretti disco della coda di “Il raffreddore delle donne” o il basso di “Parole vere in un mondo vero” provengono da “Io tu noi tutti”; l’elettronica “povera” e scarna di “E già”, 1982, si contamina in tutto il disco con le nostalgie old school di cui dicevo prima. E per la capacità di unire profondità e leggerezza, comunicatività e intelligenza, apparente superficialità e ponderata (e ponderosa) sostanza, nonché per quella di sfornare belle canzoni che ritraggono un’epoca e una generazione, in un album che appena finito esige il riascolto immediato, si impone nei canticchiamenti sotto la doccia, oltre che per i tratti stilistici in comune, gli Amari si candidano a, anzi sono, eredi naturali e diretti proprio di Mogol e Battisti. Come sarebbe successo al Lucio se iniziasse oggi, la via dei mass media è ancora loro preclusa. E a quel successo potrebbero aspirare, se mamma Warner gli desse una manina promozionale. Perché la qualità c’è. Album della maturità, disco grandissimo, artisti fatti e finiti. Applausi.
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