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Più che un disco, questo è un viaggio a ritroso nel tempo, all’origine di tutto ciò per cui vale la pena vivere, quindi cari ragazzi, prendete il walkman, inforcate le cuffie, spingete il pulsante “play” e chiudete gli occhiucci. E’ il 23 agosto del 1970 e siete a spasso per la Grande Mela, e più esattamente per il Lower East Side, quartiere malfamato dove gira parecchia gentaglia con i capelli lunghi fino al sedere (ma voi vi sarete premurati di indossare un giubbotto di cuoio borchiato, no?). Ecco: adesso siete arrivati da Maxs; salite le scale fino al primo piano, c’è un’atmosfera di svacco, gente che beve e chiacchiera senza fare troppo caso alla band che sul palco improvvisato sta sistemando gli strumenti. Alla chitarra, davanti al microfono, c’è Lou Reed, più pischello e fresco di quanto non ve lo ricordaste, e vi dice: “Good evening. We're the Velvet Underground. You're allowed to dance, in case you don't know.” E via con “Waiting For The Man”. Trovate un pertugio libero proprio dietro Brigid Polk e Jim Carroll, vi sedete e ve li gustate da vicino, i Velvet. C’è Sterling Morrison al basso, Doug Yule alla chitarra al posto di Cale – già, John se n’è andato un paio d’anni orsono per andare a fare il produttore – ma come mai non c’è Mo? Mentre parte “White Light White Heat”, rumore bianco deflagrante come due anni fa, quando uscì, uno degli avventori vi spiega che Mo è incinta, e che quel ragazzetto imberbe che picchia insistentemente i tamburi è il fratellino adolescente di Doug. Poi, lenta e dolce, arriva “I’m Set Free”; l’acustica di Maxs è penosa, ma Lou stasera la canta con un trasporto irreale, si dice che sarà l’ultimo suo concerto con i Velvet, poi forse si metterà in proprio…. Il pubblico pare distratto, c’è un rumore di fondo continuo, non la smettono di parlare neanche quando arriva “Sweet Jane”, nella versione – ovviamente - di ”Loaded” – ma lo sa questa gente che di qui a dieci anni “Sweet Jane” diventerà una delle canzoni DEFINITIVE del cosiddetto “rock classico”? Il primo set della giornata finisce, senza infamia e senza lode, con “Beginning To See The Light”. Voi vi aggirate un po’ per Maxs – ehi, ma quello non è Gerard Malanga? – tanto da perdervi l’inizio della seconda esibizione con “Who Loves The Sun”. Dopo una seconda, non essenziale, “Sweet Jane”, il concerto decolla, meravigliosamente ed irreversibilmente. Lou lascia da parte i brani nervosi e ritmati e si concentra sull’altro aspetto della sua musa, quello malinconico/meditativo e a tratti abulico/depresso. Voi, incollati a Brigid e Jim, ve la godete tutta, questa porzione del concerto, in cui in mezzo al chiacchiericcio intrasentite Lou intonare le dolci e ipnotiche “I’ll Be Your Mirror” e “Pale Blue Eyes”; e siete divertiti, piuttosto che infastiditi, da due membri del pubblico che, durante l’esecuzione di “Candy Says”, cogliete a discettare delle qualità del recente film “Patton” con George C. Scott. Lou esegue anche l’insolita (per l’epoca) “Sunday Morning”, canta “After Hours” che di solito è appannaggio di Mo, “Femme Fatale” e “Some Kinda Love”. E’ un flusso ininterrotto di decadentismo deviato newyorkese, potente antidoto alle vuote fantasmagorie hippie del periodo. E anche il secondo set è quasi andato. “Adesso fanno quella che fa na-na-na-na-na”, dice uno alle vostre spalle. E la fanno veramente, i Velvet, “Lonesome Cowboy Bill”, quasi una sigla finale, con tutto il pubblico che finalmente si sbraccia e balla. Poi è proprio finito: Brigid spegne il suo registratore portatile e voi venite risucchiati di colpo nel XXI secolo. Avete visto (sentito) l’ultimo concerto dei Velvet Underground – scioltisi la sera stessa di quel 23 agosto 1970 - ed è stata un’esperienza memorabile. Non per le esecuzioni, chè non si è certo trattato della loro migliore performance, né per il sound dato che si sentiva da schifo, ma per l’atmosfera, magica, irripetibile e paradossalmente senza tempo. Meno male che quella sera c’era – per davvero – la “Warhol girl” Brigid Polk ed il suo registratore, meno male che c’è la Rhino Records che ha rimasterizzato i nastri e ce li ha riproposti, oggi, integralmente, ad andare a (ri)comporre “The Velvet Underground Live At Maxs Kansas City”, originariamente pubblicato nel 1972. Oggi, come ieri, il miglior bootleg "ufficiale" della storia del rock.
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