Saul Hudson, meglio noto come Slash, uno degli ultimi veri porta bandiera del rock'n'roll “come Dio comanda”, ha finalmente rotto il silenzio con il suo attesissimo primo disco da solista. La formula scelta è una sorta di “Slash & friends”, che è diventato quasi il nome non ufficiale di quest'album tanto vario quanto sorprendente, perché raccoglie tanti spunti, nati dalle varie influenze che hanno segnato il corso della formazione e dell'affermazione del chitarrista britannico, naturalizzato americano.
La vera sorpresa è il modo in cui Slash sia riuscito nella maggior parte dei casi a decontestualizzare lo stile dei vari ospiti illustri che hanno dato voce o note per la registrazione del lavoro, ma anche da parte dello stesso chitarrista, spaziando dalle ben note sonorità hard che lo hanno reso celebre a tracce che vanno dal blues al metal e oltre. L'impressione che il disco dà al primo approccio è di un album veramente quadrato e potente, forte della sua varietà e della caratura dei crediti, dopo una più attenta riflessione l'idea è che forse il disco potrebbe non piacere proprio a chiunque, o meglio, i fan della vecchia guardia a voler cercare il pelo nell'uovo troverebbero sicuramente da ridire sulla base del fatto che praticamente ogni pezzo suona come un potenziale singolo, fatto cioè di linee melodiche di facile consumo che entrano immediatamente in testa, in una salsa comunque qualitativamente alta. La padronanza dello strumento della quale dispone Slash è ovviamente risaputa, evidentemente alla base del progetto c'era non tanto il togliersi lo sfizio di fare qualcosa di spiazzante o necessariamente innovativo, quanto consacrarsi come musicista di valore assoluto grazie ad un successo commerciale che sembra essere più che assicurato. Il pezzo di apertura, Ghost, con Ian Astbury dei Cult si apre con un riff avvinghiante, ma il cantato sa veramente di Bono Voxiano a livelli estremi, di gran lunga più interessante è la seguente Crucify The Dead, con il Principe delle Tenebre Ozzy Osbourne alla voce, una ballata con momenti riflessivi alternati a un ritornello decisamente più hard, che però non stona con i toni melodici della strofa. Tra le collaborazioni, che risalendo ai tempi dell'annuncio della tracklist avremmo potuto etichettare come “improbabili”, spiccava sicuramente quella con Fergie dei Black Eyed Peas, Beautiful Dangerous invece è un pezzo che si candida prepotentemente a diventare una hit da radio di quelle da farti alzare il volume dello stereo al massimo e cantare a squarciagola, con la cantante che nel ritornello sembra posseduta dallo spirito rock (e non solo) di Courtney Love. Back From Cali si può considerare una succosa anteprima del tour che verrà, visto che Myles Kennedy (voce degli Alter Bridge) sarà, come confermato con orgoglio dallo stesso Slash, il cantante live ufficiale, scelta azzeccatissima viste le qualità vocali dimostrate nel brano in questione, con un'apertura che ricorda sonorità alla AC/DC vecchio stile seguite da uno sviluppo da tipico hard rock moderno. Spiace dirlo, ma Promise con Chris Cornell al microfono, resta abbastanza impalpabile, non si può dire con certezza, ma forse la spirale di banalità nella quale è precipitato il cantante ex Sound Garden e Audioslave sembra a questo punto essere senza uscita. Tutta un'altra musica con Andrew Stockdale dei Wolfmother, By The Sword non è solo uno dei migliori pezzi del disco, ma spicca per l'autorevolezza dei virtuosismi dell'uno e dell'altro, tanto da essere stato scelto come primo singolo, investitura certamente non scontata visto il peso dei nomi delle altre special guest presenti nel progetto. Ballata da tramonto sulla spiaggia, non indimenticabile ma gradevole, è Gotten cantata da Adam Levine dei Maroon 5, inconfondibile per il suo timbro vocale, ma che in alcuni momenti riesce ad assomigliare vagamente addirittura a Ben Harper. Adesso si salvi chi può... è arrivato il turno di Lemmy! Prima che inizi la canzone il sentimento più accreditato è che Doctor Alibi possa essere una potenziale miscela esplosiva, certo il pezzo non delude completamente, ma senza dubbio poteva dare di più, tanto per citare un esempio nemmeno troppo lontano, la collaborazione dello stesso Lemmy nell'esperimento Probot che aveva portato alla luce Shake Your Blood, era avanti anni luce. Il fantasma della mezza delusione però si volatizza immediatamente sulle note della strumentale Watch This, alla quale contribuiscono Dave Grohl e Duff Mckagan, dando vita a un pezzo epico che in alcuni passaggi ricorda l'incedere maestoso dell'indimenticabile Kashmir dei Led Zeppelin. I Hold On, nella quale a cantare è invece Kid Rock unisce ancora sonorità hard a temi più tranquilli, che la rendono simile a un potenziale pezzo degli Aerosmith. Nothing To Say è invece un cambio di marcia repentino, caratterizzato da un'introduzione ed un reprise in chiusura decisamente doom, ma con un'evoluzione trash metal che ricorda i primi Metallica, quelli più cupi. Nella versione normale dell'album questo pezzo è cantato da Matthew Shadows degli Avenged Sevenfold, ma lo stesso pezzo figura, con il nome Chains And Shackles, tra le bonus track dell'edizione speciale australiana, re-interpretato da Nick Olivieri (l'ex bassista dei Queens Of The Stone Age) e se il primo vi era parso pesante, vi sembrerà uno scherzo dopo aver ascoltato questa versione. Il “prescelto” Myles Kennedy fa la doppietta con un altro pezzo, la struggente Starlight, che inizia con sembianze melodiche per poi decollare fino all'esplosivo e trascinante refrain. Non ancora famoso in Europa, ma conosciutissimo in America per aver aperto i concerti di artisti come John Mayhall e John Lee Hooker, oltre ad aver suonato insieme a Johnny Cash, il chitarrista e cantante Rocco De Luca (italo-tedesco ma nato in California) contribuisce con il suo dobro e la sua voce al pezzo Saint Is A Sinner, che ricorda piacevolmente le atmosfere mistiche dell'immortale Stairway To Heaven. Il disco si chiude alla grande con We're All Gonna Die, cantata dall'Iguana Iggy Pop, che con il 2012 sempre più vicino, sembra candidarsi alla carica di inno rock'n'roll per la fine del mondo con le parole We're all gonna die, so let's get high (traduzione: moriremo tutti, quindi sconvolgiamoci). Come già anticipato esistono anche delle bonus track, che portano a 19 il numero totale di brani proposti da Slash e compagnia, la seconda e ultima bonus track australiana è la rivisitazione di Paradise City, scelta che fa molto amarcord, ma che lascia perplessi per quanto riguarda gli interpreti: i Cypress Hill che rappano sulla strofa e ancora Fergie per il ritornello... chissà, magari uno sbeffeggio a Axl Rose? Abbinamento che sembra il frutto di una mente pericolosa, ma che si rivela invece in tutta la sua bontà, è quello per la traccia bonus del Classic Rock Slashpack Edition, con Alice Cooper e Nicole Scherzinger delle Pussycat Dolls; Baby Can't Drive dà l'idea di un pezzo sottratto ad un'ipotetica cartella di idee riproponibili con i Velvet Revolver. Mother Maria, brano omaggio sia per la versione scaricabile da iTunes che per quella britannica, eseguita con la cantante rock blues Beth Hart, è una suadente ballad che strizza l'occhio in alcuni tratti al pop-country e in altri al blues, ma che nell'esecuzione vocale ha un retrogusto da pezzo di Brian Adams interpretato da Alanis Morrisette, decisamente più apprezzabile nell'inciso centrale quando ricorda a sprazzi la folle Janis Joplin. Totalmente Guns'N'Roses sono invece le sonorità di Sahara, primo singolo estratto per il mercato giapponese, cantato dalla voce “androgina” di Koshi Inaba, vocalist nipponico di ispirazione classic rock.
Che altro aggiungere? Il disco si fa ascoltare che è una bellezza, inutile dire che gli assoli sono uno meglio dell'altro, magari non sarà il non plus ultra da parte di Slash che dall'alto della sua grandezza e affermazione non avrà cercato tanto di stupire il suo devoto pubblico, quanto di farlo ballare e divertire. Missione compiuta.
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