Dedicare un libro a Stefano Rosso, impresa certamente non lucrosa, visto l’oblio che ha avvolto l’autore di Una storia disonesta (“Che bello! Due amici, una chitarra e lo spinello”) è opera meritoria. Un libro per tener viva la memoria di questo cantautore di spessore, che non ha avuto la fortuna che meritava.
Perché? Bonanno avanza la tesi della rimozione dovuta in primis al caratteraccio del Nostro, ricordato anche da alcuni dei colleghi che hanno contribuito con testimonianze al volumetto: certo, non aiuta prendere a parolacce chiunque non ti aggradi e a pugni gli amici che fanno battute sulle tue idee politiche. In secundis Bonanno associa Rosso ad altri “minori” dimenticati: Ivan Graziani e Pierangelo Bertoli. Dimenticati, secondo il critico siciliano, perché “scomodi”. Oh, Mario, non ci credo proprio. Però la tua associazione è interessante: solo che Graziani (di cui adoro un periodo), Bertoli e Rosso credo siano dimenticati semplicemente perché troppo legati a un determinato periodo storico. Lo stesso, poi: l’Italia in odore di riflusso, avvertito, descritto o combattuto che sia nei loro testi, ma non ancora entrata a pieno negli anni ’80. Graziani e Bertoli per un po’ hanno saputo mantenere il successo, Rosso invece l’ha perso quasi subito. Versione con la chitarra in mano e il fingerpicking sulle dita di Ninetto Davoli, questo artista anarchico e popolare, ma garbato nei testi, che forse sarebbe piaciuto a Pasolini, proprio questo non è riuscito a gestire, in fondo: il ritrovarsi per sbaglio in testa alle classifiche e agli italiani con Una storia disonesta, brano di cui lui non aveva assolutamente intravisto le possibilità (lo aveva portato in RCA come riempitivo del primo album). Rosso, come mette in rilievo Bonanno, non era il cantautore spensierato e ironico che tutti immaginarono: era anche malinconico, delicato, introspettivo, riflessivo sul tempo che passa. Tante cose che non coincidevano con l’idea che se ne era fatto il pubblico. E certo non aiutava un suono così legato ai ’70 e alle schitarrate in piazza o in spiaggia: stesso oblio veloce toccherà, non a caso, anche a Goran Kuzminac. Come d’uso, Bonanno analizza principalmente i testi, quasi per nulla la musica (peraltro incrocio di strutture standard del folk americano e degli stornelli romani), offre un pugno di recensioni dei suoi album più significativi e una biografia striminzita che giustifica a priori così: “Detesto le biografie fondate sui dettagli minimi di un’esistenza. Le trovo irriguardose, pedanti, voyeristiche, tutto sommato sterili. A chi può importare davvero – tranne che ai lobotomizzati da “vita in diretta” e consimili – chi e perché fosse presente alla registrazione del disco x; o in virtù di quale complesso edipico l’artista ha utilizzato la chitarra y piuttosto che quella z?”. Sarà per questo che la figlia Stefania, nel suo commovente ricordo del padre, ci racconta della sua passione nel cucinare la frittata o di quella volta che iniettò la Coca Cola nel cocomero. O che in una manciata di belle pagine autobiografiche lo stesso Rosso (scomparso il 15 settembre 2008) ci dettagli le sue avventure erotiche con le groupies. Mentre le presenze in studio hanno un significato: influenzano la registrazione, il dato artistico, tanto più se il presente di turno è musicista. E la chitarra in uso è importante, in primis per Rosso che la suonava (e meno male che il chitarrista Andrea Tarquini ce lo racconta lui), in secundis perché, cambiando lo strumento, cambia il risultato artistico. Le abitudini da sventrapapere o friggitore di frittate fanno sorridere, ma forse sono meno essenziali per capire dove nasce la poesia di Rosso di altre vicende della sua vita.
Come sempre, un Bonanno luci ed ombre. Che stavolta riesce perfino a contraddire se stesso. Belle le foto di Cesare Monti, documentario e riassuntivo il cd live allegato.
Articolo del
17/06/2011 -
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