Vivo in Sicilia, questo lo avrete capito. Per di più in provincia, nella provincia spessa, densa, a tratti asfissiante. Bene, nella mia zona, ogni qual volta arriva la stagione delle piogge, le strade, puntualmente, collassano.
Nel senso che, letteralmente, franano. Ed ogni volta l’intervento solerte della Regione è sempre il medesimo: scaricare sull’asfalto chili di catrame, quando ci sarebbe bisogno di ristrutturare le strade dai piloni. Aggiustare quello che è un problema strutturale in quel modo lì è un po’ come quando ti secca pulire casa e metti la polvere sotto il tappeto: non hai risolto il problema, lo hai solo nascosto.
In qualche articolo fa mi soffermavo sul concetto di “musica d’autrice”, con la declinazione al femminile. Dicevo anche che era una definizione che approvavo solamente a mo’ di provocazione: mi fa schifo il concetto di “quota rosa”, con tutte le declinazioni del caso, ovviamente non è il “rosa” il mio problema, quanto la “quota”, l’elargizione miserabile che rientra in quell’insieme di pelosissime norme di buon vicinato che, ipocritamente, ci si ostina a chiamare “inclusività”.
Il problema, ribadisco, è il concetto stesso di “quota”: sono ostinatamente comunista, non posso non schifarmi per la concessione di un contentino dettato da un suprematismo “culturale” tanto palesato e legittimato dall’esistenza dalle suddette quote, quanto- manco a dirlo- insulso ed infondato. E mi dispiace che di questo vero e proprio bias cognitivo spesso non ci si accorga, accettando di fatto l’inclusività (vedi sopra) più ghettizzante che ci possa essere, quella dettata dalla tolleranza.
Arrivo al punto che ci riguarda, che- per chi non se ne fosse accorto- è sempre la musica.
Sono stati svelati i primi cartelloni dei vari festival estivi, e questa sarebbe (o meglio, è) una buona, ottima notizia. Il punto è che in questi cartelloni la presenza di artiste donne è praticamente irrilevante. Adesso mi direte che la soluzione sarebbe quella di inserire le mie tanto odiate quote rosa, e si livellerebbe tutto. Sfortunatamente io sono convinto che, più che l’imporre, serva il progettare, chè ragionando nell’ottica delle concessioni di quote x si applica esattamente lo stesso provvedimento che la Regione Sicilia applica per la manutenzione (??) del suo manto stradale, l’introduzione della quota rosa per risolvere la questione di genere nella musica è esattamente come il catrame versato dozzinalmente per ricoprire le buche lasciate dalle frane.
Parlavo di progettare, e per quanto mi riguarda, si progetta facendo conoscere, facendo ascoltare, parlando di un universo musicale al femminile che ha delle vere e proprie perle nascoste.
Il problema di fondo, poi torno alla questione festival, è che, spesso, manca proprio la progettualità. C’è un dato che mi sembra abbastanza esplicativo, in questo senso, e c’entra con il discorso della sovrapproduzione musicale che c’è negli ultimi periodi: scrivevo nell’articolo linkato sopra che il divario di genere fra le due proposte è già abbastanza profondo, ma analizzandolo con un briciolo di attenzione, il dato che salta agli occhi è un altro, vale a dire che, mentre fra le uscite maschili spesso si trovano album o singoli che annunciano album, fra quelle femminili la quantità di singoli “figli unici” è impressionante. C’è un substrato di cantautrici bravissime, che tirano fuori singoli dalla classe immensa, ma che non trovano letteralmente quasi nessuno che ci scommetta su. E qua si torna al discorso dei festival.
Dei grandi festival non mi va nemmeno di parlarne, ma solo perché sto partendo dal presupposto che c’è stato un anno e mezzo di fermo, la necessità era quella di far ricominciare a circolare pubblico ed introiti, e di “rischiare” portando artisti poco catchy, non se la sentiva, giustamente, nessuno, ecco. Sta di fatto che, al momento, i nomi esclusivamente al femminile con tour attivi ed in grado di spostare un discreto numero di pubblico sono, essenzialmente, Rachele Bastreghi, Margherita Vicario, Cristina Donà e Levante, cui si aggiungono Coma¬¬¬_Cose e La Rappresentante di Lista, composti per metà da voci femminili. Oltre a loro, qualche data per Ariete ed Emma Nolde. Poi, praticamente, il vuoto.
E questo agire, ripeto, dai grandi festival me lo aspettavo anche, discutibile per quanto. Il problema vero arriva quando anche i piccoli festival finiscono per chiamare solo artisti uomini, cui, per altro, molte delle cantautrici che sto per nominare, mangerebbero la pappa in testa, per qualità e bravura. Ed è un problema che si collega direttamente con l’assenza di musica d’autrice nelle varie rassegne: il pubblico difficilmente spenderà dei soldi per andare a vedere artisti che non conosce. Ma se quello stesso pubblico viene educato a partire dai piccoli festival, anche i nomi più sconosciuti aumenteranno il loro bacino d’utenza. Così facendo, non saremmo davanti al rischio del nome sconosciuto, e molte artiste validissime potrebbero tranquillamente andare a fare da headliner anche nei festival più grandi. Come dicevo sopra, è una questione strettamente legata alla strutturalità ed alla capacità di costruire piano piano.
A tal proposito, qualche endorsement spudorato lo voglio anche fare: il Lilith Festival, organizzato dall’etichetta omonima, fondata da Sabrina Napoleone, Cristina Nico e Valentina Amandolese- guarda un po’, tre delle nostre migliori cantautrici- ha una programmazione fighissima, frutto di un perfetto punto di incontro fra la vecchia e la nuova scuola della nostra musica d’autrice. Poi sta anche riprendendo il via il Festivalino di Anatomia Femminile di Michele Monina, raro caso in cui la figura del critico musicale svolge ancora perfettamente il suo compito, vale a dire fare da tramite fra nuove ed interessanti proposte- in questo caso, ovviamente, al femminile- ed un pubblico più mainstream. Senza contare il contributo unico di realtà consolidate, come il Premio Bianca D’Aponte, e fresche, come il progetto Lunatika, di cui, essendone, per certi versi, parte, avevo scritto qualche tempo fa.
E, dal momento che qualche riga fa ho detto che era importante parlarne, beh… parliamone. Oltre ai due album di cui scriverò nel dettaglio fra qualche riga, però, volevo prima fare qualche altro nome, sia mai che qualche organizzatore si dovesse imbattere in ‘sta roba qua e dovesse convincersi quantomeno ad ascoltare qualcosa.
Credo di non poter essere smentito se dico che, ad esempio, una come Elisa “Erin” Bonomo potrebbe tranquillamente trovare spazio in qualsiasi cartellone possibile (la sua “Nuvola”, cantata con un’altra splendida artista come Chiara Vidonis, è uno dei pezzi più belli dell’anno). Discorso analogamente applicabile a Cassandra Raffaele o Agnese Valle o al post punk combattente di Giorgia Del Mese, alle atmosfere rarefatte di Lamine, alla classe di Anna e l’Appartamento o Angelica Mente, all’eclettismo di Volosumarte, di Mimosa o delle Viadellironia, ai volteggi letterari di Sarah Stride e Serena Diodati, all’elettropop scatenato di Elasi, a quello più low- fi di Adelasia, all’eleganza di Simona Severini o Cristiana Verardo, al punk rock sporchissimo di Ilenia Volpe e Giorgieness, ai colori popolari di Chiara Patronella ed Eleonora Bordonaro. E ad un maremagno di altre artiste strabilianti.
Maremagno di cui fanno parte anche Alteria ed i Respiro, che saranno i protagonisti della parte, per così dire, tecnica dell’articolo. Entrambi sono freschi di uscita discografica, rispettivamente con “Vita imperfetta” e “Jungle gum”, due lavori strafighi, che sono un vero concentrato di potenza e fantasia e di cui, direi, sarebbe anche ora di raccontare.
Per cui, andiamo, partendo proprio da Alteria, al secolo Stefania Bianchi, e dal sopracitato “Vita imperfetta”, che è la terza prova discografica della rocker, cantautrice e speaker radiofonica.
Un lavoro che, sotto la dura scorza musicale di un rock tirato, nasconde una componente letteraria dalle tinte intime esistenziali, aperto dal riff nervoso e teso di “Benvenuto bene”, che poggia su una sezione ritmica martellante, scandita da un basso tuonante e da un pattern di batteria secco.
Segue “Apnea” (“Dentro al silenzio totale/ Con sottile arte vedrai/ Ti farai portare dove ancora non sai/ La marea che arriva fin qui/ L’acqua ti guarisce/ Brucia e poi va via” ), sorretta da un tappeto di elettronica dalle atmosfere dilatate, costantemente squarciato dalle incursioni distorte di una chitarra elettrica.
Terza traccia è “Punto di rottura”, pezzo scandito da un denso muro di chitarre elettriche dal sapore tempestoso che va a spezzare costantemente una linea di basso profonda ed avvolgente, in un arrangiamento che, nella sua dinamica, risulta in perfetta aderenza con un testo quasi catartico, “Oggi è il punto di rottura/ ed è la fine dell’inizio/ come quando resti a galla a fare il morto/ E’ un filo che si spezza/ una mano che si stacca/ Questa fragile incoerenza/ di chi non sa dire basta” .
“Senso opposto” costituisce un momento di pausa dai colori brumosi del disco, con un arpeggio di piano a sostenerla e con un rarefatto tappeto di elettronica a far da sfondo. Anche qui, la componente letteraria gioca un ruolo fondamentale, presentandoci un testo dilaniato (“La strada della città/ percorsa in senso opposto/ Una luce che fa buio/ Il vuoto che toglie spazio”), reso benissimo dalla prova vocale di Alteria, che, in assenza di elementi musicali di strappo, si fa distorta essa stessa.
Giro di boa dell’album è “Zero necessità” (“Fumerò ogni tua idea/ per bruciare il tempo/ che non mi è più concesso/ E soffierò/ come soffia via il vento/ tutto questo tormento/ la mia cenere dentro”), che ci riporta ad atmosfere da rock più spinto, con un riff acido e corrosivo che si innesta alla perfezione su una linea di basso martellante ed un pattern di batteria asciutto e convulso.
Anche su “Guerra” a saltare alle orecchie è l’incessante linea di basso che scandisce le strofe, sovrastata sul ritornello da una impetuosa ed imponente schitarrata elettrica, su un brano che colpisce ancora una volta per l’affinità fra musica e testo, con una interessantissima parte rappata in chiusura: “Scariche sotto la pelle/ toccami fai elettroshock/ Questo cuore non è popolare/ Non lo vendo in stock/ Butta in strada la paura/ A lato a fare l’autostop/ Con i sogni riempio pagine/ Ma non ci scrivo un blog”.
“Nessuna pietà”, pezzo che vede la partecipazione di Francesco Setta, alterna, ancora una volta, in modo splendido una strofa più scarna, segnata da una chitarra sul pulito e da un tappeto di elettronica in sottofondo, ad un ritornello che esplode in un reticolato di chitarre elettriche, fra ritmica atomica e fraseggi acidi. “Un tempo imperfetto/ prezioso difetto/ che ti porti dietro e non si stacca mai/ E’ un vecchio dipinto che cambia nel tempo/ E’ il tuo testamento, firmato Oscar Wilde/ Come mai sono ferma nell’ombra/ Solo un passo alla volta/ La fretta sprofonda” .
Un riff caustico introduce “Arma a doppio taglio”, pezzo dalla ritmica meno frenetica, ma dall’atmosfera densa e viscosa, su cui un basso vorticoso fa da collante fra la parte più elettrica e quella più elettronica, che va a riempire ulteriormente il ritornello.
“Paura di niente” mescola perfettamente i colori acustici delle strofe con le piogge distorte dei ritornelli, alternando a meraviglia una parte più sostenuta con una vera e propria detonazione elettrica, che sfocia nel bel solo di chitarra.
A chiudere il disco è “Giove, Saturno e tutti contro” (“Giove, Saturno e tutti contro/ Passato, presente e futuro/ aspetto qualcosa da sempre/ In questa bolla di spazio, non trovo il mio posto/ ma resto/ Non sono un segno rivoluzionario/ ho l’ascendente che mi tiene calma”), aperto da un arpeggio di acustica che poggia sopra un largo tappeto di synth, a rendere il pezzo incalzante nella metrica ma decisamente meno tempestoso e più intimo negli arrangiamenti.
I Respiro, che, giusto per rimarcare il discorso- quote, sono, numericamente e genericamente, in “quota LRDL”, vale a dire un duo formato dalla voce (e la penna, che sarà un elemento non da poco, come vedremo) di Lara Ingrosso e dal violino di Francesco Del Prete.
Il loro “Jungle Gum”, vero e proprio concept album, che rappresenta la terza prova in studio del duo, è un vortice scatenato ed irrefrenabile di elettropop d’alta classe, che trova già nello stesso titolo e nel suo interessante calembour, una significativa chiave di lettura, ma adesso capiremo meglio.
Disco che comincia con “La musica del futuro”, aperta da un acidissimo riff di chitarra, cui si sostituiscono una linea di basso vorticosa ed un tappeto di synth e strings, che ben si sposano con le vertiginose altezze vocali toccate da Lara. Il racconto di questo “preambolo” del concept è già programmatico: due viaggiatori del futuro che arrivano sulla Terra, trovando un mondo in totale disarmo, fra solitudini più o meno fisiche e guerre. L’ambivalenza del ritornello, “Ehi! Qui la musica non cambia mai/ Sai, sembra quella del futuro, ma è sempre la stessa”, si muove esattamente in quella direzione lì, in un racconto 2.0 della ciclicità della storia.
Anche in “Pre- carie” si segue la falsa riga del gioco di parole per introdurre il testo, ma ci arriviamo fra poco. Qui, musicalmente, abbiamo sempre un basso in primissimo piano, poggiato su una base armonica di synth e dinamizzato da un pattern di batteria elettronica, che fa da sfondo per lo splendido flow di una linea vocale che mischia metriche rap a sporche venature soul. Si diceva del testo, che fa nascere la sua narrazione da una sosta al semaforo e lo fa terminare con una strofa come “Ora vado dal dentista, mi ha incastrato nella lista, /salgo in pista per montare il byte e centrare il beat. Bip!/ Apre la ragazza quella mora, mi consolo, /anche lei con una laurea non fa certo il suo lavoro/ Ora sì che starò bene con in bocca le catene, ma non dormo /Se noi siamo tutti incatenati chi scandisce il ritmo delle nostre lamentele?/ Prendimi così/ che con tutti questi dolci dubbi ci è venuta la pre- carie”.
Un asfissiante ritmo tribale segna “La giungla” (La giungla di notte fa tanta paura,/ non si fa capire, è sempre più oscura/ T’invita ad uscire, a varcare la porta/ La vostra distanza ora è sempre più corta”), sorretta nella strofa da un claustrofobico reticolo di synth che poggia sul tappeto ritmico, mentre l’ingresso degli strings sul ritornello apre e dilata l’atmosfera di un pezzo che si chiude con un forsennato solo di violino impazzito.
Vera e propria cannonata è “The wORking dead”, che vede anche in questo caso un gioco di parole quanto mai esemplificativo, per un pezzo che poggia su una ritmica tuonante, ben seguita dal flow serratissimo del cantato. Anche in questo caso, abbiamo un ritornello che allarga il pezzo, aiutato dai fraseggi scatenati del violino e da una interpretazione vocale cristallina ma, al contempo, incazzata. “Adesso ho il mio lavoro e non mi muovo di qua/ seduto sulla sedia 12h a chiamare/ The wORking dead in tutta la città/ Per oggi niente paga, passa tra qualche giorno e chiedi/ Poi chiudi tu la porta quando esci e non battere i piedi/ Che fuori abbiamo la fila, non ci creiamo problemi /perché noi siamo i padroni, i padroni veri! ” Com’era quella storiella che il pop è solo canzonette?
Giro di boa dell’album è “NQSB” (“Qui i poteri forti/ ci riducono all’osso/ Io non li ho mai visti/ ma così hanno detto:/ “Niente più vaccini /basta stare a letto!” Siamo molecole perse e senza regole/ siamo umani/ Siamo quelli del bar /macchinette e giornale /con le nostre monete noi vogliamo grattare”), che gioca molto sull’incrocio e l’incastro fra una chitarra elettrica corrosiva (notevole il suo solo) ed un basso pieno di groove, che si stagliano, coloratissimi ed ironici, su una base armonica di synth.
A seguire troviamo “Corona di spine”, brano che, anche in questo caso, vede una perfetta aderenza fra l’andamento musicale e quello letterario: tanto sono asfissianti le parole delle strofe, che parlano della difficoltà di affermarsi in un mondo costruito su castelli di pregiudizi, quanto è serrata la scansione metrica del cantato, così come tanto è aperto e largo il ritornello- frutto anche di una voce che tocca ottave vertiginose- quanto parla, letteralmente, di liberazioni il testo. “A tenerci nascosti siamo bravi davvero/ A cucire la bocca, a pensare di meno/ Ah!Se ci riconoscessimo anche solo per sbaglio/ con lo sguardo da cani sempre e solo al guinzaglio/ E domani lo so, porteremo la croce/ per permettere ad altri una vita migliore/ Perché dimmi chi ha detto che non è naturale/ nascere con le ali e imparare a nuotare/ E liberami! Io sono quello che sono. ”
“Ce l’hai scritto sulla pelle” (“Sai, quei segni sul viso/ sono mappe per me/ Perché li vuoi nascondere?/ Sono dei tramonti finiti/ degli scogli appuntiti/ per le lacrime che vuoi arginare/ Siamo solo rami nel vento/ e ci taglia, lo sento/ La tua pelle scompare dietro un nuovo tormento”) è, probabilmente, il capitolo più introspettivo, sicuramente il più musicalmente cupo, introdotto da un ruvidissimo incastro fra una chitarra elettrica sporca ed un violino sanguinante, che si lascia andare ad una coda finale tesissima.
Su “oTTo” tornano toni un po’ meno cupi, ma non per questo più distesi: una linea vocale che parte dal rap e finisce col soul si snoda su una linea di basso votata ad un groove vorticoso e contrappuntata dai riff di synth,, si snoda, infatti, un pezzo che parla di isolamento, solitudine ed autoanalisi: “Dimmi otto cose da dire e immagina poi/ tutto a un tratto non essere vittima ma carnefice/ e sentirmi debole di cuore/ tra quattro mura esplodere d’amore che non posso dare/ Solo una mano che sa calmare, che mi può salvare la notte,quando a vedere chi sonosolo con me io non ci voglio restare. ”
A continuare questo trittico dai toni non proprio sostenuti ci pensa “Noi non li avevamo visti”: atmosfere ruvidissime, segnate da una barriera di elettronica e da un pattern di batteria infuocato, che aprono cupamente nel ritornello, per un racconto crudo dell’ipocrisia autoassolutoria che ammanta le discussioni sull’immigrazione: “Io non/ l’ho mai avuta davvero/ la luna è di tutti e brilla sempre di meno/ La notte esplode quando il mondo piange/ e il cielo veste spesso di nero/ È facile mostrarsi con la maschera/ È facile restare di qua, ma è là/ che affondano nei loro abissi/ e quando chiedono aiuto diciamo: “Noi non li avevamo visti” “
A chiudere il lavoro ci pensa “Cingomma”, che altro non è che il relativo meridionale per indicare la gomma da masticare. La canzone che segna il tratto finale- ed, ovviamente, come in tutti i concept che si rispettano- circolare del disco è sostenuta da una fresca base di synth, che gioca su una riuscita alternanza fra ritmi incalzanti e momenti di apertura. Geniale l’ultimo verso, conclusione notevole di un percorso interessantissimo: “E tutte queste storie su questa mia città/ non lasciano parole, sono la verità/ Ma, sai, la giungla urbana, se tu sai come fare/ è un mondo in miniatura, è gomma da masticare. ”
Stiamo parlando, paradossalmente, di due facce della stessa medaglia, due album che riescono ad andare dal particolare narrativo al suo relativo universale: se quello di Alteria è pura ed introspettiva autoanalisi, spesso cruda nei testi e ruvida nella resa musicale, quello dei Respiro è uno spaccato lucido, ironico e politico della nostra “giungla urbana”, espressione che trovo quanto mai calzante e che mi riporta ad una ben precisa tradizione cantautorale. In più, siamo di fronte all’ennesima conferma del fatto che il rock è vivo e lotta insieme a noi, e che un pop raffinato, letterariamente e musicalmente, è non solo auspicabile, ma già ben esistente. Insomma, due lavori che sono un vero Respiro d’aria fresca in questa Vita imperfetta.
Articolo del
03/06/2021 -
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