Scrivo essenzialmente la notte, questo credo di averlo fatto intendere nei vari articoli precedenti. E, considerando che ormai da quasi due anni, la scrittura (quale che essa sia) è diventata la mia attività primaria, consequenzialmente in qualche modo “vivo” di notte.
In un primo momento era una questione di necessità, la scrittura notturna mi permetteva di essere più tranquillo, di non avere attorno nessun elemento disturbatore e, di conseguenza, di far lavorare meglio il cervello. Adesso, essendo spesso una specie di gatto abitudinario, scrivo di notte anche per abitudine, appunto.
E’ altrettanto chiaro che mi metto a scrivere, prima prendendo appunti sui miei adorati bloc notes, poi trasferendo tutto su pc, solo quando ho effettivamente chiaro punto di partenza e punto di arrivo, per lo snodo centrale sono abituato all’improvvisazione già nella vita, figurarsi nella scrittura. Quando decido di mettermi a scrivere, da qualche mese a questa parte (l’ho detto, sono un gatto abitudinario) ho un segnale scatenante: come ultimo contatto con la vita circostante prima della full immersion musicale fumo un sigarillo, dopodichè mi metto al lavoro.
Adesso magari è un effetto placebo, anzi lo è quasi sicuramente, ma quei cinque minuti mandati- letteralmente- in fumo sono spesso la chiave di volta dei miei articoli. Digressione minuscola per arrivare meglio al punto: poco prima della quarantena, oltre ad incontrare il tabacco, ho deciso di traslocare tutto quello che riguarda la musica in mansarda, arredandola a vero e proprio ufficio, con i dischi, i libri, gli strumenti, penne e bloc notes. Accanto alla mansarda, che non ha finestre, c’è una terrazza, questa sì con finestre, che dà direttamente sul tetto di casa. Da lì mi affaccio per fumare. Essendo questo il primo inverno col sigarillo in bocca, qualche sera fa ho notato che, con l’abbassarsi notturno delle temperature, fatico a distinguere il fumo che effettivamente butto dal vapore acqueo in cui si trasforma il mio respiro. Ora, sul versante scientifico, la mia osservazione ha un peso specifico pari a stocazzo, praticamente. Come è giusto che sia.
Però questo è uno di quegli articoli in cui c’entrano i vari giochini di doppio che sovente si incontrano, e lo scambio di fumi, o meglio, la confusione di fumi, mi porta a ragionare sul fatto che è esattamente quello che succede spesso oggi: ci si confonde. Si intendono i vari Dondoni, Laffranchi e compagnia (mal) scrivente come critici musicali invece che come giornalisti di costume prestati alla musica, con tutto quello che questo comporta. Si legittima come grande musica qualcosa che è nella normalità, esempio lampante Avincola ad AmaSanremo: Simone è stato uno bravo, un duro e puro della musica d’autore. Ma, non me ne voglia, “Goal” fa cagare: è un pezzo banale in tutte le sue componenti, dai synth reiterati al testo pieno di tòpoi letterari itpop. Un enorme “se non puoi batterli, unisciti a loro”.
Un altrettanto enorme fumo negli occhi gettato in faccia ad ascoltatori meno rodati, che magari faticano a distinguere l’effettiva qualità delle proposte. Esattamente come faccio io col fumo.
Proprio per questo oggi vi sbatto in faccia un articolo "più che lungo, smisurato!": è il momento di fujì dalla musica cattiva e di fare come quando giocavamo a nascondino, vale a dire liberare un po’ tutti.
E qua, leggendo i tempi, occorre un altro disclaimer: è la seconda volta che mi capita di accorpare delle recensioni, la prima volta era successo con Emma Nolde e Viola Violi, e lo avevo fatto per un motivo ben preciso, vale a dire quello della “casualità”, se così vogliamo definirla, dei due ascolti.
Questa volta saranno addirittura tre, e si parlerà nuovamente di tre cantautrici, anche questa volta legate da un filo comune, la provenienza geografica, in questo caso parte nopea, parte campana, parte italiana e parte mediterranea. La battuta me la potevo risparmiare, lo so. Ma ormai dovreste sapere che più che la penna, di temibile ho solo la coglionaggine, per cui ve la potevate anche aspettare.
Mo’ torniamo alla musica, che poi mi dicono che non centro i focus.
Dicevamo, tre artiste napoletane, per certi versi abbastanza simili, quantomeno nell’approccio alla musica. Si tratta, anche se sopra ci sono due indizi, di Simona Boo, che col suo Cultural Boo Team ha tirato fuori “Fuje”, e di Flo, che torna a distanza di due anni da “La Mentirosa”, suo ultimo lavoro, con “31SALVITUTTI”, e di Alfina Scorza con le sue “Le lettere di Jo”.
Parto da “Fuje”, che viene cronologicamente prima. “Fuje” è il primo disco a nome Simona Boo&Cultural Boo Team, ma Simona già quattro anni fa aveva inciso un album bellissimo come “Festa in casa De Moraes”, insieme a Carlo Lomanto e Robertinho Bastos, tributo alla sua passione per la musica brasiliana. E già questo dovrebbe bastare, ma se proprio vogliamo essere precisi, sono da citare anche le partecipazioni in “Nuvole nuove” di Pepp- Oh, in “TeRapia” del mio conterraneo Picciotto e nell’ultimo Capitone del mitico Daniele Sepe. Senza contare le ulteriori esperienze con 99 Posse e con la mitica Orchestra di Piazza Vittorio, che giusto ieri diventava maggiorenne, alla quale va il mio personale augurio di resistenza artistica e non.
Album che si apre con “Bacia il silenzio”, reggae colorato da una armonica impazzita e da dei contrappunti di sax, in un pezzo che è una prosecuzione delle atmosfere portoghesi/ carioca del precedente lavoro di cui sopra, dal momento che prende spunto da una poesia portoghese di Carlos Lobo Duarte.
Anche nella seconda traccia, “Al centro storico”, cover di un brano del bravo Simone Spirito (“il nulla sembra statico, anche il dolore è elastico” è un verso degnissimo di nota, molto interessante), ci sono echi carioca, in un pezzo velato di una nostalgica malinconia, ben incorniciata dallo sfondo del circostante genuino, che sembra quasi filmato, tanto appare nitida la sua immagine, nel quale si snodano le vicende cantate.
Splendido è il lavoro fatto su “Oração”, altra cover, stavolta di A banda mais bonita da Cidade, gruppo- guarda tu- brasiliano. Il pezzo ha un crescendo di ampiezza che lo fa decollare verso splendide e libere vette, e vede la partecipazione della ScalzaBanda ai cori e di Daniele Sepe al thin wistle. I tre pezzi che seguono, nell’ordine “Canto di fata”, “Sufia” e “Zaè”, compongono il nucleo centrale del disco, e sono la parte più strettamente autobiografica del lavoro di Simona. “Canto di fata” è un breviario su come far venire i brividi in tre minuti e poco più: un brano leggerissimo, pieno di aria, mare e sud, che decolla col sax di Capitan Sepe ma che ha, soprattutto nella sua parte brasiliana, una metrica fantastica, con l’ultima strofa che è un gioiellino: “Canto di fata, fata Morgana, quest’acqua è di carta, la mia terra è lontana”. La “terra lontana” di Simona è la Nigeria, e “Sufia” è un pezzo dedicato alla sua madre adottiva. Pezzo che spicca per una interpretazione vocale intensa e vibrante, che trasuda Africa da ogni nota (a conferma, qualora ce ne fosse bisogno, che i confini sono sempre una gran cazzata), e per la potenza liberatoria nei passaggi strumentali, con l’apporto di un basso fretless che è una vera ciliegina sulla torta. Struggente il passaggio “Sufia è una scintilla divina. È una sposa. Piange da sola e il mare riposa”, ulteriore conferma di una scrittura matura e potente. Chiude questo terzetto “Zaè”, dedicata invece ai genitori adottivi. Un basso fretless fa da trait d’union, ma il pezzo si snoda su timbri abbastanza diversi, con una ritmica più marcata, in una cavalcata scandita dai contrappunti di armonica a bocca e da una chitarra elettrica che strizza l’occhio (o più che altro l’orecchio) al delta blues. In un album fatto di incontri e commistioni musicali è il pezzo più concettualmente azzeccato che ci potesse essere, un pezzo nel quale anche la stessa musica viene adottata dai vari musicisti. Per quanto mi riguarda, anche questa è poesia.
Ed, a proposito di commistioni musicali e di contaminazioni, non poteva mancare un omaggio ad una delle più grandi esperienze musicali non solo africane: Fela Kuti e l’Afrobeat degli degli Africa 70/ Egypt 80 furono un qualcosa di culturalmente detonante per la liberazione del continente africano. Kuti, insieme a Tony Allen, Manu Dibango e tantissimi altri, confermarono il fatto che la musica non è mai solo una questione artistica: è anche culturale, civile e politica. E proprio di musica politica sono fatti “Fuje” ed “Estate ’89, Una storia dal mare”.
La prima, evidentemente title- track, è strettamente legata alle sonorità, appunto, più afrobeat, e scortica tutta l’imbecillità- purtroppo resiliente (magari accostandola al razzismo riusciamo a mandarla in vacca, ‘sta parola)- del razzismo e del luogo comune, fatto dei tanti “Eh, parli bene però”. In tutta onestà spesso è chi- lombrosianamente parlando- dovrebbe essere più italiano di qualcun altro a sembrare straniero quando apre bocca. E poi, che volete farci, per chi scrive e per chi canta è che “siamo meridionali: abbiamo stati tutti quanti abituati male”…
“Estate ‘89” è un pezzo dedicato a Jerry Masslo, a trentun’anni dal suo assassinio, ed è il brano dai toni più noir dell’album. E non potrebbe essere diversamente, è un pezzo che è un pugno dritto allo stomaco: non c’è retorica, c’è solo l’inferno di quei poveri cristi che mettono tutto su un barcone, sperando di non perdere, oltre che quel “tutto”, la speranza. “Ogni storia che arriva dal mare è rumore e silenzio, ogni storia che arriva dal mare è un vuoto profondo.” Un pezzo stracciato dall’armonica a bocca e dagli inserimenti della chitarra elettrica, con il flauto dell’onnipresente Daniele Sepe e la kora di Kaw Sissoko a colorarlo ulteriormente.
A chiudere l’album ci pensa una ventata di veracità tutta napoletana, alla “Nun me scuccia’”. Citazione non casuale, perché “Ernestina, figl’e bucchin’song” è un bluesaccio standard e sporchissimo, tendente- anche per carica autoironica- forse più ai Blue Stuff che a Pino Daniele. In mezzo al profluvio di svisature folli trova spazio una bella interpretazione, autoironica ma schietta e “minacciosa”, che rispecchia perfettamente il testo.
Floriana, in arte Flo, ritorna, come detto sopra, a due anni di distanza con un nuovo lavoro in studio, abbastanza differente, per colori ed influenze, da “La Mentirosa”. “31SALVITUTTI” è un lavoro più orientato su toni panmediterranei, da Napoli alle coste spagnole e nordafricane fino a sensazioni balcaniche. Il tutto ben sostenuto da dei testi potenti e da una grandissima prova vocale.
Ma vediamo un po’ meglio.
La title- track è il pezzo che apre il lavoro, pezzo su cui risalta una chitarra elettrica su toni arabi, vicina al desert blues di Bombino. Brano che, con quel “Se ai nastri di partenza se partesse tale e quale l’ommo cu l’ommo, l’animale cu l’animale nun se passasse maie troppo vicino a morte”, racconta delle troppe disuguaglianze che segnano il mondo moderno.
“Oui oui sauvage” è un lieve blues sostenuto da una chitarra elettrica, con una dinamica fluida, che ben si sposa con la metrica del testo, soprattutto nella sua parte in francese. Raffinatissima la prova vocale di Flo, che alterna la teatralità più accentuata della prima parte ad una specie di spoken nella parte in francese.
Un basso marcatissimo, più che dei tamburi, rende “Aurora boreale” un pezzo dal sapore primitivo e terroso del Sud, che si trasforma in una ossessiva tammuriata nella seconda parte. Impressione, quella della carnosità del pezzo, accentuata dal leggero graffiato vocale di Flo. Splendida la parte in napoletano, universale la verità che afferma, quel “chi canta votte fora” liberatorio.
E sempre una linea di basso vorticosa a scandire “La Gaviota”, che tradotto significa “Il Gabbiano”, un pezzo in spagnolo ispirato al racconto omonimo di Fernàn Caballero, scrittrice considerata fra le apripista del realismo. E’ una storia di libertà, cui Flo “aggiusta”- rispetto al racconto- il finale: dove, infatti, la Gaviota della Caballero viene castigata come monito per i suoi costumi libertini, Flo esorta la sua gabbiana a volare sempre più in alto, a cantare ed a mordere la sua vita. Pezzo dalle forti tinte iberiche, con degli interessanti inserimenti di chitarra elettrica sul ritornello e con una prova vocale che vola alta come la gaviota di cui canta.
Un ipnotico arpeggio di chitarra elettrica sostiene “L’uomo normale”, che è stato il primo singolo estratto dall’album, ed è una perfetta rappresentazione della enorme zona grigia nella quale siamo tanto inglobati da non renderci nemmeno conto di farne parte, tutto condensato nel ritornello, “Io non sono razzista però Io non sono violento però Io non sono fascista però Sono l’uomo normale Io non sono arrivista però Io non sono geloso però Bla, bla, bla però Sono l’uomo normale”. La normalità del male.
“Accussì” è una delle vette di intensità dell’album, racconta della sfolgorante bellezza della casualità, di qualcosa che accade, appunto “accussì”, così, per caso. Un arpeggio di chitarra classica tiene in piedi il pezzo, mentre i pattern di percussioni ne accentuano la carica evocativa.
Ad “Accussì” segue “Marte27”, uno dei brani più nostalgici e malinconici del disco. Una chitarra elettrica, credo con l’e- bow, ci fa arrivare un suono lontano e solitario, direttamente dal “desiderio d’autunno”.
Viviamo in un mondo veloce, praticamente istantaneo. “Fai di me” ne è una fotografia a tratti spietata, e racconta con estrema lucidità di un mondo che ha bisogno di fare per esporsi. Lo canta su una ritmica incessante, con delle percussioni ossessive, una chitarra elettrica dai colori arabi ed un testo infuocato, di cui è emblematico il ritornello, “Fai di me la lotta di confine tra la terra e il mare. Fai di me la notte che respira dentro un temporale. Fai di me il segno della croce prima di saltare L’illusione del viaggio La tua parte migliore.”
“Radio Volkan” tinge invece l’album di nuances balcaniche, con un trascinante riff di chitarra elettrica ed un pattern di batteria sorretto da una linea di basso che si incastra alla perfezione col riff della chitarra. “Radio Volkan” è, probabilmente, la radio da cui esce la “musica ribelle, che ti vibra nelle ossa, che ti entra nella pelle”. Come la musica, è anarchica e sovversiva.
Per raccontare “Per guardarti meglio” basterebbero un paio di strofe, “Bimba in un lampo sarà tutto finito come la primavera e guardarti le spalle è tempo perso perché quando arrivo, ti prendo e ti passo attraverso. Che mani grandi hai Per tenerti stretta Resta ferma qui zitta, zitta. E il giorno non arriva anche se l’aspetto”. E’ una canzone atroce, dedicata a tutte le spose bambine ed alle loro infanzie strappate. La prova vocale, soprattutto nel ritornello, è sanguinante, montata su una ritmica cupa ed incessante.
A chiudere l’album è “Miracolosa Anarchica”, pezzo pieno delle contraddizioni tanto di Napoli quanto di mille altre città in bilico fra sacro e profano, razionalità e superstizione, alla ricerca di un presente prima ancora che di un futuro. E’ un pezzo delicato, sostenuto da un levare di chitarra classica appena accennato, profondo ed intenso, cantato con un trasporto che non è semplice interpretazione, è il rapporto di odio- amore che queste città, meravigliose nella loro difficoltà, sono in grado di offrire. "Le lettere di Jo" è la seconda prova discografica di Alfina Scorza, ed arriva a cinque anni di distanza da "Di rosso e di sensualità". Nove storie di donne- la Jo del titolo è un chiaro riferimento a Jo March, la protagonista di "Piccole donne" della Alcott- compongono un lavoro interessante e cangiante sulle sue tessiture musicali.
Un bouzouki dai toni tendendi ad un sirtaki ed una linea di basso molto dinamica animano "La sua vanità", pezzo che apre non solo il disco, ma anche un trittico di brani che riguardano la sfera degli affetti. "La sua vanità" è il continuo calpestamento di una donna come madre e come moglie, un invito alla ribellione.
"Ma quando scende la sera" è un suadente e tempestoso tango, sorretto da un pianoforte e colorato dai contrappunti degli archi, che racconta della storia d'amore fra un uomo ed una donna di quindici anni più grande.
"Sciolgo" per un momento l'ordine della tracklist per completare il terzetto di cui sopra. La canzone che lo chiude è l'intensa "Lettera", storia di un rapporto madre- figlia travagliato ma puro e coraggioso. Anche qui è un piano a tenere le fila del pezzo, sollevato da un crescendo strumentale che lo fa decollare.
"Svegliali tu" è il vero terzo pezzo della tracklist, e vede la partecipazione della grandissima Brunella Selo. È, probabilmente, il pezzo più potente dell'album, ispirato alla storia di Carolina Picchio, suicida a quindici ànni vittima di cyberbullismo. Un brano in cui la potenza incazzata del testo si fonde alla perfezione con i toni elettrici dell'arrangiamento e con la componente interpretativa. Quest'ultima mette in mostra un intreccio di voci che è un'alchimia perfetta.
"Quadro imperfetto" è un brano a toni arabeggianti, con un bell'arpeggio di chitarra classica ed un interessante pattern di percussioni. Anche qui molto interessante la storia raccontata: l'imprevedibilità dell'amore ed il coraggio di seguirlo, anche a costo della rinuncia ad una vita più agiata.
"Così sia" era già uscito come singolo qualche anno fa, e tratta della posizione della donna nel mondo del lavoro, tematica- se possibile- ancora più attuale rispetto a tre anni fa. Pezzo con una dinamica molto interessante, con la sezione archi che si intercambia con la chitarra nel levare ed un afflato world sempre molto accentuato.
"Rosamarina", brano scritto da Andrea Parodi, riprende le sonorità del tango, che incontrano un arpeggio di chitarra classica dilatato che apre ulteriormente il pezzo. La protagonista questa volta è una donna del Sud emigrata in Argentina. Ad ogni giro di tango riaffiorano in lei i ricordi di una vita passata, in bilico fra nostalgia e malinconia.
Una linea di basso esplosiva, una fisarmonica che svisa e dei fill di batteria spaziali dominano "Scegli te", brano che racconta di ribellione e perseveranza, dell'andare avanti senza badare troppo al sentire comune ed alle scelte di comodo.
Chiude il disco "Storia d'amore", unica cover dell'album, di un brano di Celentano. Su una spinta ancora tanguera, fatta di archi e fraseggi di chitarra, avviene un ribaltamento della prospettiva rispetto al pezzo originale: è la donna a parlare, il punto di vista è il suo, in una intuizione "teatrale" interessantissima e riuscita.
Siamo ai saluti, ci sono solo le conclusioni da trarre. Sapete che sono prolisso, ma so che starete pensando che comincia ad essere troppo pure per me. Però non sono impazzito: l'aver messo insieme questi tre bellissimi lavori ha un ulteriore punto in comune oltre alla provenienza di Simona, Floriana e Alfina. Sono tre lavori infuocati, pieni di coraggio, libertà e resistenza. Non c'è un pezzo che non meriti tutte le attenzioni, anche solo per la tematica che ci sta dietro. Poi sono tutti suonati, che sembrerebbe scontato ma- purtroppo- non lo è.
Di lavori del genere, che gridano forte, animati dall'esigenza di farsi sentire, c'è sempre bisogno. Sono quelli per cui vale la pena passare le notti in bianco.
Che il sonno prima o poi lo recuperi, la bellezza va colta subito.
Articolo del
25/11/2020 -
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