Cinquantacinque anni fa Bob Dylan riportava tutto a casa, pubblicando Bring it all back home, il suo primo disco (per metà) elettrico e, come nel suo stile, per farlo decideva di non ripercorrere i suoi passi ma di sovvertire regole e attese. Bruce Springsteen per ritrovare le radici non ha mai sentito come vitale l’esigenza di mettere in discussione tutto: il ritorno alle origini l’ha tracciato nel tempo con la pazienza e la consapevolezza che tornare a casa significa scavare dentro il proprio io più profondo, fare i conti con i propri demoni, per capire che non potrai davvero sistemare quello che è già successo.
Da My hometown del 1984 il percorso a ritroso in cerca dei propri fantasmi, è stato lungo, non sempre lineare, ‘a Long walk Home’ appunto, un lungo tragitto che l’ha portato nel 2017 fino a Broadway: il ritorno a casa in tutti i sensi, fisico e mentale, della sua storia musicale e personale. Il piccolo Walter Kerr Theatre all’interno del quale per un anno e mezzo ha cercato, tra le altre cose, per cinque sere a settimane, di pacificarsi con il proprio passato più complicato.
Fatto quel passo, mancava soltanto riportare a casa la banda, la E Street Band, compagna di una vita sulla strada e sui palchi di mezzo mondo. Non che la banda non fosse stata con lui negli ultimi vent’anni, con lunghi tour di concerti come sempre intensi e lunghissimi, ma adesso bisognava ricreare quel suono, quella magia, che il lavoro sin troppo meticoloso in studio da The Rising in poi, aveva pian piano reso sempre meno riconoscibile.
Letter to you, il nuovo disco di Bruce Springsteen che esce ufficialmente oggi, è una lettera from home, la casa dove Bruce a 70 anni suonati ha riunito la sua famiglia di musicisti, per 5 giorni, per suonare e registrare in presa diretta, catturando così nella loro ruvida e immediata naturalezza le nuove canzoni che stavolta non avevano bisogno di arrangiamenti elaborati, troppe riflessioni o troppe sovraincisioni, ma che l’istinto, il gran lavoro di squadra di tutti questi anni, le vittorie e le sconfitte, l’amore e la vita perduti e quelli tenuti forte a denti stretti, l’empatia umana e professionale, tutto questo emergesse spontaneamente, quasi naturalmente e permeasse questi nuovi frammenti della sua storia e quindi della storia della E Street Band (oserei dire: della nostra). Prima di procedere, lo sguardo si volge al passato più recente, con quella “One minute you’re here”, che come una sorta di prologo rievoca l’ultimo “Western Stars” (il film ancor più che il disco) sia nell’approccio quasi acustico (praticamente unico caso in Letter to you) che nella lirica, in cui il ritorno è preannunciato: “Baby, baby, baby/ I’m so alone/Baby, baby, baby/I’m coming home”.
Se deve essere un tornare alle origini, allora la banda deve suonare ruvida e scarna come una volta: la title track è il manifesto programmatico (“Le cose che ho scoperto nei tempi duri e in quelli buoni/ Le ho scritte tutte con inchiostro e sangue”), con i classici passaggi alla E Street Band definiti con vivida potenza: la batteria di Max che introduce e poi dosa cuore e martello, le chitarre, di Bruce, di Steve, di Nils, che dettano il riff e si cercano di continuo, il piano di Roy Bittan, come contrappunto costante delle linee melodiche, l’hammond a stendere un tappeto in costante crescendo, il basso straordinario di Garry Tallent, esemplare nella sua disarmante efficacia senza mai essere banale, e poi la voce di Bruce, che senza orpelli o artifici, non ha paura di mostrare la ruvidezza dell’età, con la forza del tempo che, se non distrugge, tempra e fortifica. Mancano Danny e Clarence, eppure ci sono, ne avverti lo spirito.
E l’altra canzone che ci riporta a indietro nel tempo ma con la forza del presente è proprio “Ghosts”, con la potenza tipica della E Street band, e una rabbia gridata che sprizza energia da ogni passaggio. I fantasmi che aleggiano sono appunto spiriti vivi, in un vortice sonoro che porta verso un inciso travolgente nella sua semplicità: “Sono vivo/E riesco a sentire il brivido del sangue nelle ossa/Sono vivo e sono qui fuori da solo/Sono vivo e sto tornando a casa”. E’ decisamente la strada verso casa! E non è fortuito che si sentano gli echi di Tom Petty del riff di chitarra come a voler mettere le cose in un posto preciso, al loro posto.
Debiti e debitori, tutti figli di Dylan che come un nume tutelare aleggia in tanti momenti di questo disco. E anche qui non è un caso che Bruce abbia deciso di recuperare tre brani dei suoi esordi quando, come un nuovo Dylan appunto, la sua scrittura si lanciava in territori arditi, visionaria e spregiudicata come può (e deve) essere quella di un ragazzo di 22 anni. Quell’età, o poco più, aveva Bruce quando scriveva “Janey needs a shooter, If I was the priest”, e “Song to orphans”, i tre brani ri-proposti in Letter to you con i suoni e la voce di oggi, quasi a tracciare un ponte ideale tra quello che eravamo e quello che siamo diventati. Se è evidente il debito con Dylan anche nel cantato di oggi (e più che mai nella scrittura di ieri) è bellissimo vedere come la E Street band attualizzi al suo sound di oggi quelle canzoni nate acustiche, per voce e piano o voce e chitarre. Di fronte a tre brani così potenti (e dalle liriche impressionanti per fantasia e immagini: su tutte If I was the priest, con Gesù Cristo sceriffo e la Vergine Maria a gestire il saloon del Santo Graal!) e ai due brani scelti per lanciare il disco, il resto ha l’arduo compito di mantenere il livello di attenzione, di positiva tensione, sempre alto.
Se Dylan per riportare tutto a casa doveva ‘liberarsi’ di ciò che era stato, Springsteen vuole invece ricordarlo a tutti i costi a se stesso, e ai suoi fan che da anni aspettavano questo ritorno alle origini. E il risultato delle altre nuove canzoni, anche in questo senso è notevole: in “Burning train” c’è tanto Little Steven (ma anche, ancora tanto, Dylan), nell’incedere e nella timbrica, oltre che nel solo di chitarra; “House of a thousand guitars” è una sorta di rituale pagano tra peccato e redenzione (churches and jails) col pianoforte di Roy che torna indietro di 40 anni; “Rainmaker” è lo Springsteen militante che non abbassa la guardia di fronte alle contraddizioni (soprattutto politiche) d’America, e ricorda il Mellencamp più forte ed elettrico; “The power of prayer” è il rovescio spirituale dell’indole sociale impegnata, che con il passare degli anni acquista una consapevolezza ‘terrena’, cogliendo i segni dello spirito nel quotidiano. In brani come questo lo Springsteen più classico porge il fianco a quello degli ultimi anni, anche in questo caso senza timore di mostrare che non è più tempo di amore nei viottoli, nelle backstreets, ma di pezzi che anche musicalmente non hanno più bisogno di mostrare tormenti e ferite.
C’è tanta vita in queste canzoni, tutte cariche, ma c’è anche il senso inevitabile della fine, presagi di morte e amici salutati lungo la via: da “Last mand Standing” (che Bruce ha raccontato di aver scritto dopo il funerale di George Theiss, cantante e chitarrista della sua prima band, resosi conto dopo la sua morte di essere rimasto l’ultimo sopravvissuto del suo primo gruppo) alla già citata “One minute you’re here”: “Mentre il vento d’estate canta la sua ultima canzone/Un attimo ci sei/Un attimo dopo non ci sei più”. La chiusura di “I’ll see you in my dreams” mi ricorda il canto di Lead Belly e la “sua” “Irene, goodnight”, appunto non più in questa terra, ma alla quale augurare la buonanotte e un arrivederci in sogno. Bruce qui cala l’ultimo straordinario asso, ancora una volta assecondato e trascinato dalla sua band, per l’ennesima volta capace di raccontare con disarmante semplicità, come in un’elegia finale tra chitarre, piano, e l’organo e il sax di Charly Giordano e Jake Clemons che hanno preso il posto degli amici fraterni andati via troppo presto. Come se il vero ritorno a casa fosse quello che ancora ci dovrà essere, tra lacrime e addii, abbracci e sorrisi, la musica resiste ancora, e il pensiero (più che mai vivo) inevitabilmente va appunto agli amici persi (ma mai persi davvero) in questi anni, Clarence, Danny, Terry: “Ci incontreremo, vivremo e rideremo di nuovo/Ti rivedrò nei miei sogni, sì, dietro l’ansa del fiume/Perché la morte non è la fine, e ti rivedrò nei miei sogni”.
Non può essere un addio, insomma, ci sarà sempre una nuova strada da correre e da ripercorrere nella realtà dei sogni , nei nuovi sogni da fare, e nei soliti vecchi sogni che proveremo a far diventare realtà.
E anche “Quando tutte le nostre estati saranno finite”, ci rivedremo ancora. E torneremo di nuovo a casa.
Articolo del
23/10/2020 -
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