Se siete fan delle mie introduzioni, diciamo così, naif, beh… stavolta rimarrete delusi. Mi perdonerete, ma ho una scaletta che potrebbe essere tranquillamente considerata “piano quinquennale”, e la mia fantasia è limitata, prova ne è il fatto che sono fermo con la scrittura teatrale da almeno un anno. Ma, al netto di tutto, ricordo sempre che questo spazio dovrebbe essere uno spazio musicale, non quello dei cazzi miei. Per cui se non ci sono effetti speciali non stupitevi: dovrebbe essere così di base, ecco. Ad ogni modo, c’è effettivamente qualcosa che potrebbe dare una mano a spiegare “Mi ero perso il cuore”, che, oltre ad essere il tema dell’articolo, è anche il bell’album di esordio solista di Cristiano Godano, solitamente penna, chitarra e voce dei Marlene Kuntz. Qualche sera fa, dopo una enorme orgia di rumori ben assortiti (dalle canzoni in cuffia ai rumori di fondo della strada, passando per l’autoclave ed il ventilatore sparato a palla in faccia), un attimo prima di cadere fra le braccia di Morfeo, mi sono reso conto di quanto mi suonasse strano, assordante, il silenzio che mi circondava. E’ stata una sensazione abbastanza strana, che mi ha a tratti spaventato, almeno per il fatto di essere così inaspettata ed, al contempo, deflagrante. La stessa sensazione, chiaramente spostata su un piano cognitivo diverso, l’ho avvertita ascoltando l’album di Godano. Intendiamoci: la mia ultima recensione prima di questa si apriva con una specie di excursus dei miei gusti punk, ed i Marlene li avevo citati fra i miei miti, fra quelli su cui ho formato il mio animo elettrico. Ovvio che sentire la loro voce, quella che mi aveva fatto impazzire su “Festa Mesta”, cantare e suonare dei brani per lo più acustici, spiccatamente folk e country, mi potesse spiazzare. Poi ho pensato che la tassonomia è un problema troppo spesso ricorrente, soprattutto in musica, e sono riuscito ad ascoltare tutto senza quella sensazione di smarrimento misto a stupore che mi aveva colpito al primo ascolto. E così, squarciato finalmente il velo di Maya, mi sono ritrovato di fronte ad un album che ha, in realtà, un discreto numero di punti di contatto con i Marlene Kuntz. Anche perché certe “conversioni” verso la melodia e verso qualcosa che non fosse solo muro del suono c’erano già state in “Ho ucciso paranoia” ed ancora di più in “Uno” o “Bianco Sporco”, approfondire quel filone lì era anche una strada interessante da percorrere. Altro punto di contatto è Gianni Maroccolo, produttore dei Marlene e co- produttore, oltre che bassista, di questo album. E sapete già meglio di me che qualsiasi cosa tocchi Gianni diventa oro, è come il bollino - garanzia. Tanto più quando a lui si aggiunge gente come Enrico Gabrielli o Vittorio Cosma o Luca Rossi. C’ è anche un terzo punto comune, che però svelerete dopo. “Mi ero perso il cuore” è un album elegantissimo e raffinato. E’ un lavoro molto intimo, e la voce di Godano è in perfetta linea con questo spirito quasi racchiuso, raccolto. Album, come dicevamo, dai timbri acustici, in cui trova però spazio qualche chitarra elettrica (su “Ciò che sarò io” c’è un solo interessantissimo, dalle tinte blueseggianti) e qualche dobro (“Sei sempre qui con me”, che è uno dei pezzi più belli dell’intero lavoro, col basso in primo piano ed un giro di accordi molto interessante). C’è, ovviamente, anche spazio per qualcosa di più “classico”: “Lamento del depresso” è un pezzo martellante, scandito da un arpeggio incessante e dall’elettronica di sottofondo, con una batteria marziale che, sul finire di pezzo, scandisce il recitato di Godano. Altro pezzo in stile Marlene è “Panico”, pezzo che presenta, anche qui, un basso penetrantissimo, che praticamente regge tutto, ed un riff corrosivo in sottofondo. Come se non bastasse, a completare un pezzo fantastico ci si mette anche Enrico Gabrielli, dei Calibro 35, col suo sax: capite bene che non poteva venire fuori qualcosa di brutto. Gli altri pezzi giocano, appunto, su questi colori country, molto Neil Young e, soprattutto, Dylan, citato e tradotto (qualche verso di “Blowin’ in the wind”) su “Com’è possibile”. Sempre Gabrielli mette il suo zampino (ed il suo flauto) su “Nella natura”, facendolo così decollare definitivamente: gli arzigogoli del flauto si sposano perfettamente con la voce altalenante di Godano, restituendo un bell’effetto di “natura in movimento”. Dal punto di vista dei testi, siamo di fronte ad uno di quelli che, piaccia o non piaccia, ha creato uno stile di scrittura delle canzoni, insieme ad Agnelli o a Mimì Clementi: c’è tutto un filone di scrittura “blue” nato con loro e con le loro suggestioni, e Godano vi si mantiene aderente anche nel suo esordio solista, cantando senza paure lo smarrimento dei nostri tempi (“Com’è possibile”), i rapporti padre- figlio (“Padre e figlio”, “Figlio e padre”), la fragilità emotiva (“Fragile”, “Ti voglio dire”). E’ una scrittura che, spogliata del vetriolo sonoro dei Marlene, risulta ancora più valida e forte, seppur delicata e leggera. In definitiva è un album decisamente ben riuscito, con giri armonici non scontati, testi mai banali ed una interpretazione che valorizza ancora di più i due fattori poc’anzi citati. E’ un album ricercato e colto, da vero musicista, da chi la musica la divora e la conosce profondamente. Non era un disco facile, e va dato anche dato merito del fatto che Cristiano si è praticamente (ri) messo in gioco, con una produzione che, seppur nelle sue corde, era abbastanza distante da quanto fatto finora. Una prova del nove ampiamente superata, per un album che, per scrittura, tematiche, rapporto con la musica ed interpretazione si trova ad essere un po’ una quadratura del cerchio perfetta, praticamente… “Catartica”.
Articolo del
17/07/2020 -
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