Come avrete intuito, mi capita molto spesso, praticamente sempre, di cominciare i miei articoli parlando di me e della mia vita. non solo per accorciare le distanze fra me e chi mi legge, quanto anche per far capire, qualora ce ne fosse bisogno, che la musica fa provare lo stesso numero di emozioni tanto a chi ci lavora quanto a chi l'ascolta come passatempo o modo di rilassarsi.
E' quindi, abbastanza probabile, che in un mio articolo possiate trovare delle autocitazioni (d'altro canto, come mi ebbe a dire Giorgio Canali, "se non mi cito io, chi cazzo mi cita?") o dei riferimenti a pezzi precedenti.
Ecco, questo è uno di quei casi: riparto dai tempi di peste di cui parlavo nel mio precedente articolo. Ecco, da inguaribile ottimista quale sono, credo che i tempi di peste e di reclusione forzata (e “reclusione” è stata abbastanza pesata come parola: comprendo perfettamente chi si sente prigioniero in casa propria. E ricordo ai tanti giudici di ‘sto cazzo che il fatto che abbiano una comoda postazione per quella cosa turpe che è lo smartworking e/o qualcosa da fare al momento è solo culo. Né selezione naturale né particolari meriti. Solo culo.) ci aiuteranno a rimettere ordine fra le nostre priorità, fra i nostri bisogni e fra le nostre mancanze.
Non posso dire di star vivendo male il periodo: ho i miei strumenti, un bel po’ di album da ascoltare (e quindi di articoli da scrivere, e questo è un minaccioso avviso, ndr), uno spettacolo da finire. Eppure, il fatto di dover suonare da solo, mi ha “spiegato che penso”, mi ha fatto definitivamente capire cosa io intenda per “Musica” e cosa davvero mi piaccia del fare musica. Ho compreso pienamente che fare musica significa stare insieme, significa comunità. Comunità di intenti dal lato professionale, comunità di modi di esprimersi dal lato artistico, comunità di sentimenti dal lato morale- spirituale.
Mi sta mancando, tanto, non andare alle prove dei ForaTiempu, non staccare il jack senza spegnere l’amplificatore, non sentire esplodere le casse, non ridere alle battute di Alessandro, non sentire le sviolinate esuberanti di Alberto, non inventare arrangiamenti con Claudio, non fare gruppo, non essere strumento di integrazione.
Ma sono contento, perché ho capito quanto sia davvero importante la musica in momenti del genere. E perché so che, presto o tardi, torneremo. Noi e la nostra anarchia musicale, la nostra voglia di libertà su pentagramma. Noi come tutti gli altri artisti (“chè colleghi mi sembra esagerato”) che aspetto di vedere da sotto un palco, ed a cui va il mio abbraccio virtuale.
In questo paesaggio di esistenzialismo artistico avevo bisogno di qualcosa che mi facesse respirare la stessa libertà di quando suono con i ForaTiempu. E fortunatamente l’ho trovata salpando sul vascello di Capitan Capitone, al secolo Daniele Sepe, e della sua ciurma tutt’altro che sgangherata.
Le nuove avventure di Capitan Capitone è il terzo capitolo della saga di Capitan Capitone, ed è, come l’intera discografia del grande sassofonista napoletano, completamente autoprodotto, grazie anche ad una campagna di crowdfunding.
E’ un album che va assolutamente ascoltato perché in tempi di orizzonti ristretti, lui non fa altro che aprirne di nuovi, musicali ed onirici. Abbina ad una quantità enorme di mondi musicali e di stili una quantità enorme di storie da raccontare, di cose da dire, di riflessioni che, adesso che due minuti potremmo anche trovarli, sarebbe tempo di fare.
Ed il bello è che è un disco assolutamente universale, che non significa dalle armonie facili, anzi. E’ universale perché è godibile, aperto, libero.
Ad aprire l’album è la “Marcia di Brancaleone”, che adatta alle tematiche capitonesche l’iconica colonna sonora del film del grande Mario Monicelli.
Poi tocca alla storia di “Cazzimmao (pesciolini e pesci a brodo)”, adattamento di “Peixinhos do mar”, di Milton Nascimiento, che diventa una critica al capitalismo, “mascherata” da fiaba esopiana (col coro dei bambini che lo sottolinea) con una ben precisa morale: la prepotenza non paga mai, anche perché “i pesci piccoli, se sono uniti, son fatti per non aver confini. Gli unici pesci che hann’ re’ cunfini son’e pesc’ a brodo”.
“Abu Tabela” racconta, su sonorità marcatamente orientali ed il cantato newpolitan rap di Shaone, della storia di Paolo Avitabile, una specie di “Sinan Capudan Pascià” in salsa partenopea: è la storia di un militare al servizio di Gioacchino Murat, che si ritrova Governatore di Peshawar e, successivamente, collaboratore degli inglesi durante la loro conquista dell’Afghanistan, finendo, una volta tornato ad Agerola, probabilmente avvelenato dalla compagna ventenne.
“Bailecito trasteverino” fa poggiare su dei ritmi a metà fra Sudamerica e musica d’autore napoletana, mandolini e flauti di Pan, la voce cristallinamente andineggiante di un’artista incredibile come Lavinia Mancusi, in un brano dalla forte carica emotiva, anche grazie alla perfetta interpretazione della Mancusi.
“Il corpo morto” chiude idealmente il cerchio aperto da “Spritz e rivoluzione” in “Capitan Capitone e i Fratelli della Costa, solo che qua non c’è nessun tentativo di falso intellettualismo: il protagonista, cui presta la voce quel gran genio che è Fabio Celenza, è semplicemente ubriaco fradicio, un corpo morto annegato nello spritz. Il brano poggia su una ritmica funky, ed è probabilmente il più imprevedibile dell’intero lavoro. Notevoli i passaggi di xilofono, in quello che è un grande omaggio al genio indiscusso di Frank Zappa.
“Marenare” è la traduzione di Le grand courier, brano francese degli ambienti, vedi tu, pirateschi, di cui Sepe aveva già inciso una versione, però in lingua francese. Qui, oltre alla traduzione, c’è di nuovo anche il colore blueseggiante che i riff di chitarra danno al pezzo, dopo l’inizio da folk celtico, con l’organetto di Alessandro d’Alessandro a fare da timoniere. Il risultato è una cavalcata (navigata, pardon) praticamente epica, sulla cresta dell’onda, col vento in faccia.
Mario Insenga, voce dei Blue Stuff ed ospite di “Chesta è ‘a vita mia”, non fa altro che rendere scontata la prosecuzione dell’atmosfera blues, prestando la sua voce ad un testo autoironico e disilluso, che parla di glorie (poche) e piccole disgrazie (molte) della vita di un uomo qualunque.
“Se tu sei il mio vero amore” ha un testo che, a mio sentire, è il più toccante dell’intero album, e non nascondo che mi ha molto commosso: parla di viaggi e sogni. I viaggi di chi è costretto a lasciare il vero amore per un tozzo di pane, i sogni di chi vorrebbe un mondo giusto, dove arrivi ad ognuno secondo i propri bisogni e da ognuno secondo le proprie capacità. La voce di Mimì Caravano dei Neri per Caso, accompagnata da un coro di bambini, poggia su un minuetto delicatissimo, con una sezione di fiati fluttuante.
Le ritmiche scanzonate, a metà fra mariachi e Brasile, tornano a fare capolino in “Lapo& Gonzalo”. Al recitato di Aldolà Chivalà il compito di raccontare ancora di disparità, dell’ipocrisia del capitalismo: Lapo è quello ricco, quello iscritto a millemila associazioni di volontariato, Gonzalo è quello meno abbiente, quello che non ha tempo per preoccuparsi del buco dell’ozono e di tematiche più alte, perché ha più necessità di pensare, per prima cosa, al buco del suo culo.
“O’ guardio” richiama molto Manu Chao, e dimostra che anche il reggaeton si può fare bene. La voce di Cristian Vollaro canta dell’omicidio di Davide Bifulco, diciassettenne ucciso in circostanze poco chiare da un colpo di pistola esploso da un carabiniere, in un pezzo che si trasforma in un (giusto, sapete che dico molto schiettamente come la penso) endorsement per la legalizzazione della Marijuana.
“Uagliùn& guagliòle” riprende le musicalità del folk tradizionale, trasportandole in una scanzonata, ma elegante, atmosfera di festa, con una ritmica su tempo dispari che è una vera chicca. Altro elemento portante sono le zampogne, che danno una spruzzata di musica balcanica da valija albanese- montenegrina.
Atmosfere, queste balcaniche, riprese in toto in “Zingari”, cantata da O’ Rom e Marcello Coleman, una delle voci del reggae partenopeo. Il pezzo potrebbe tranquillamente stare in un album di Goran Bregovic o fare da colonna sonora ad un film di Emir Kusturica, ma è colorato di venature napoletane anche nella musica, soprattutto nel ritornello, che sale in maggiore, cosa non esattamente frequente nelle armonie balcaniche, e nell’inciso recitato, la cui linea di basso ricorda alcuni lavori dei Bisca.
La nave di Capitan Capitone salpa verso nuovi lidi con “Ondas do mar de Vigo”, cantata in modo superbo da Emilia Zamunèr, in un brano che ci riporta verso oriente, con un sitar in primo piano. L’atmosfera del brano è dilatata ed elegante, sembra quasi di immaginare un alito di vento che, in una notte tersa e stellata, accarezza le guance dei naviganti di ritorno verso la loro Itaca.
“Chominciamento di gioia” è un brano strumentale, un omaggio alle radici folk, una tarantella sostenuta da un flauto impazzito.
“Il trombettiere di Custer” fa il paio con la storia raccontata in “Abu Tabela”: questa volta si tratta di Giovanni Martini, che, da Sala Consilina, finì per entrare nel Settimo Reggimento del Generale Custer. Vi entrò poco prima che il reggimento venisse asfaltato a Little Big Horn. Di quella battaglia (devo dire, con molto cinismo, fortunatamente tragica per gli americani) lui fu l’unico sopravvissuto. La sua storia viene raccontata su un country scatenato, che ha come backing track la famosa “Oh, Susanna”, che nel ritornello si trasforma in “Oh, Sant’Anna”. Io, cose del genere, le chiamo colpi di genio.
“Romeo & Giulietta 2.0” è l’incredibile quota trap del disco: l’atmosfera è molto cupa, e Shaone canta su un testo che sottolinea le ipocrisie e le contraddizioni dell’amore ai tempi dei social, un amore che rischia di essere vuoto e di facciata.
“Core ‘e pappavalle” è un altro brano strumentale, stavolta omaggio alle sonorità carioca, con quel “cikatun” come leit motiv preso interamente da quel capolavoro che è “Febbre da cavallo”, cui si richiama anche il “E’ ‘na mandrakata!” iniziale.
I volteggi pianistici e l’imprevedibile raffinatezza di Stefano Bollani aprono “Dino il pesciolino fino”, il pezzo che chiude l’album, interamente recitato da Valentina Cenni Traggo le conclusioni: se sentite ancora dire a qualcuno che la musica non salva o non aiuta, mollategli un sonante ceffone e ditegli “Questo è lo schiaffo di Capitan Capitone”. Questo album mi ha un po’ riconciliato con la musica, ne ha rinsaldato la concezione che ho. E’ zappiano nella composizione, senza paletti, pieno di citazioni, di generi, di imprevedibilità, l’unica limitazione è non avere limitazioni. E’ un album contemporaneo, libero, attraversato dal vento, un album in viaggio. Come il capitano di un vascello.
Ah, a proposito… di Capitano ce n’è uno solo. Ed è Daniele Sepe.
Gli altri sono pesci per brodo.
Voto all’album: 10. Credo di aver detto tutto.
Pezzo preferito: “Marenare”. Il fatto di averla ascoltata almeno una ventina di volte in un pomeriggio parla per me. Ti prende e non ti lascia più.
Articolo del
23/03/2020 -
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