L’uscita di un disco postumo di solita porta con sé una coltre intensa di dubbi e sospetti. Allora, abbassate pure la guardia, non è questo il caso. Thanks For the Dance è uscito a tre anni esatti di distanza dalla morte di Leonard Cohen. Era il 7 Novembre 2016 ed era appena uscito You Want It Darker, ultimo suo album ufficiale.
Adesso Adam Cohen, il figlio musicista di Leonard, che aveva già collaborato con il padre alla stesura di quell’album, ha deciso di mettere mano ad un certo numero di provini rimasti nel cassetto, tante possibili tracce per future canzoni. Adam aveva ricevuto dal padre il compito di portarle a termine e allora ha riunito in studio vecchi collaboratori di Leonar , musicisti del calibro di Jennifer Warnes, Leslie Feist, Damien Rice, Beck, Bryce Dessner, Daniel Lanois e Javier Mas, per completare il lavoro.
Il risultato finale lo potrete ascoltare sulle nove canzoni inserite su questo “Thanks For The Dance”, album di rara bellezza, che ci restituisce ancora una volta il dono della voce e delle liriche di Leonard Cohen, ultimo dei grandi poeti della canzone d’autore americana di fine anni Sessanta. Vi confesso che ho provato una forte emozione all’ascolto del disco così come al momento di scriverne.
Le nuove canzoni sono degli outtakes da “You Want it Darker”, questo è vero, ma solo perché ritenute fuori contesto, e non in quanto di valore inferiore. L’album inizia con la stupenda “ Happens To the Heart”, in cui Cohen racconta la genesi della sua arte, nata da un duro lavoro su se stesso, dall’impegno e dal suo “incontro con Cristo e lettura di Marx”. Segue la melodiosa “ Moving On”, una love song per chitarra acustica impreziosita dalla voce dell’autore. Molto più drammatica risulta “The Night Of Santiago”, una ballata acustica tenebrosa e dagli echi ispanici, il cui testo a dire il vero era già stato pubblicato su un disco di Philip Glass.
“Thanks For the Dance” , la canzone, è il saluto finale di Cohen al mondo, il suo umile ringraziamento alla vita, per il vino versato e bevuto insieme, per le gioie condivise ma anche per la sofferenza, con un senso di stupore, con un candore quasi infantile, che lo porta ad una accettazione serena di quanto ha vissuto, di quello che conosciuto “senza alcun bisogno di andare oltre”. Un piccolo incanto si rivelano anche “It’s Torn” e lo “spoken word” di “The Goal”, dove Cohen - che sa di essere vicino alla fine - confessa di “non avere più nessuno da seguire e niente da insegnare, adesso che l’obiettivo è così a portata di mano”.
Bene anche “Puppets” sull’inutilità delle guerre e “The Hills”, commovente, sull’attesa della morte, è lei quella “She” del testo, che verrà a illuminare ogni cosa. Un passaggio inevitabile, vissuto con una serenità e una dolcezza tali da dare conforto a quanti restano.
E infine “Listen To The Hummingbird”, un altro spoken word essenziale e drammatico che ci invita a non ascoltare più lui, stretto nel suo destino di uomo, ma i suoni e le voci della Natura, come “il canto del colibrì anche se non ne vedi le ali”. Un tratto profondamente mistico questo, che ci fa riflettere in un mondo in cui conta soltanto quello che appare, che si compra, che si mangia. Siamo ben oltre i confini della canzone, siamo in territorio poetico, esplorato con eleganza e con tanta signorilità. Questo album era l’ultima sua volontà, il suo ultimo regalo. E il figlio puntualmente l’ha eseguita. Tenetevelo ben stretto quindi, perché non ci saranno altri dischi postumi
Articolo del
09/02/2020 -
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