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Kim Gordon
No Home Record
2019
Matador
di
Andrea Salacone
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Artista poliedrica Kim Gordon, e musicista che nell’ambito dell’indie americano gode giustamente di una reputazione inattaccabile, guadagnata in trent’anni di gloriosa attività soprattutto come bassista dei Sonic Youth.
L’impegno in progetti paralleli, e la sperimentazione di soluzioni espressive ancora più variegate rispetto a quelle elaborate dalla band (sciolta ormai da quasi un decennio) non sono mai stati una novità per lei; basti pensare alle Free Kitten, e ai loro dischi spigolosi pubblicati a partire dall’inizio degli anni Novanta.
Strano a dirsi, con una carriera così lunga, brillante e “avventurosa” alle spalle: No Home Record costituisce di fatto il suo album d’esordio come solista. Il profondo rispetto che si nutre per la fascinosa Gordon spingerebbe a incensare l’opera con lodi sperticate, ma non tutto funziona alla perfezione.
No Home Record possiede un fascino indiscutibile, anche se le atmosfere evocate dai brani sono non di rado cupe o opprimenti, talvolta gelide, e si respira un’aria di straniamento. I testi impressionisti presentano spesso giustapposizioni di immagini, associazioni di idee le cui relazioni rimangono per lo più difficilmente comprensibili per l’ascoltatore. Serpeggia, tra l’altro, una certa sensualità: la Gordon sussurra ammaliante, ma il tessuto sonoro algido sembra privare di solarità e di trasporto tale sfera (“Sketch Artist” e “Paprika Pony”; il parlato di “Get Yr Life Back”).
Le composizioni più movimentate rimandano alle sonorità raschianti dei Sonic Youth: “Air BnB”, basso corposo, chitarre stridenti un po’ anche alla Jon Spencer, e feedback (dal vivo sarebbe un pezzo favoloso); “Murdered Out”, con sei corde ronzanti e la voce che diviene il fischio di una sirena; l’impetuosa “Hungry Baby”, punk slabbrato costruito su due accordi con elettriche motosega, sottofondo di rumori e voce ululante. La Gordon pare intenzionata a sabotare programmaticamente qualsiasi accenno a una melodia orecchiabile; anche nella più tranquilla “Earthquake”, infatti, l’introduzione psichedelica lascia il posto a un cantato modulato un po’ fuori tono rispetto alla base musicale (che è arricchita da una sorta di bordone alla Velvet Underground).
Notevoli le composizioni appena citate, mentre si potrebbe storcere il naso davanti alle altre tracce in cui un’elettronica scheletrica la fa da padrone: “Sketch Artist”; l’ipnotica “Paprika Pony”, con tocchi orientaleggianti; il tappeto percussivo e i suoni stridenti di “Don’t Play It” e “Cookie Butter”(quasi sette minuti estenuanti), e la conclusiva “Get Yr Life Back” manifestano una curiosità e una volontà di rimettersi in gioco che sono ammirevoli, ma è poco probabile che si proverà entusiasmo ad ascoltarle più di una volta.
In conclusione, puntare meno sulle sonorità “sintetiche” (in questo contesto un po’ incolori) a scapito di episodi più viscerali avrebbe forse giovato al risultato finale. Ma può darsi che pronunciare in maniera nostalgica una simile affermazione significhi fare un torto imperdonabile ad un’artista che non si è mai tirata indietro di fronte alla prospettiva di percorrere nuove strade
Articolo del
20/10/2019 -
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