One True Pairing è un’espressione gergale utilizzata soprattutto dai fans delle serie televisive per identificare la coppia di personaggi la cui relazione risulti più emotivamente efficace: autentica e irrinunciabile. Tom Fleming (ex Wild Beasts) l’ha scelta per titolare il suo primo album da solista in modo del tutto inedito, non riconoscibile né identificabile con la parabola artistica passata.
Si tratta di un lavoro che esprime sin dalle prime battute profonda attenzione al sociale, fa trasparire disagio per la realtà circostante, per lo svilimento qualitativo dei rapporti umani, per un mondo sempre più dominato da interessi economici e povertà morale, sebbene sin dal titolo guardi ironicamente al primato della speranza e della gentilezza. Forse proprio per queste premesse l’esordio solista del baritonale cantante di Kendal suona piuttosto aspro all’ascolto e, va detto pure senza tante ambagi, anche un bel po’ rozzo.
Prodotto da Ben Hillier, aduso a rapportarsi con quei gran satanassi dei Depeche Mode, questo One True Pairing sembra da subito un tentativo onestissimo e sincero ma dal portato mediamente modesto. Sarà il venir meno del sodalizio con Hayden Thorpe (il cui contemporaneo Diviner, uscito a maggio, denota ben altra foggia) e quindi delle tipiche alchimie per le quali il tutto è sempre maggiore della somma delle parti, sarà pure l’esigenza di sfogare le proprie istanze e intraprendere un percorso artistico nuovo e dal mood decisamente più affilato (posta la parola fine su uno scorcio di carriera, non dimentichiamolo, di sedici anni e cinque dischi). Resta il fatto che con l’elettronica e i campioni non è così banale operare, specie se il fine ultimo è evidentemente colmare il vuoto lasciato dai compagni di avventura e ripartire da soli, subitaneamente.
Tom Fleming cita gargantuesche fonti di ispirazione per questo lavoro, parla di Bruce Springsteen per i testi e di Don Henley e dei già citati Depeche Mode per le musiche. Purtroppo per lui dello sconfinato talento del batterista degli Eagles per la melodia e il jingle memorabile possiede giusto il minimo compendio sindacale. Delle ipnotiche architetture sonore di Dave Gahan e soci né il guizzo né tantomeno l’immane mestiere.
Non basta scarnificare la struttura compositiva dei brani (per quanto pop-oriented) affidandosi a synth, drum machine e pennellate di chitarra acidula per tratteggiare l’essenzialità. Anzi, è un giochino pure rischioso, perché se non hai ottime frecce al tuo arco, profondità di scrittura, capacità di spostare le armonie sibilando quei colpi di scena che rendono l’ascolto pregno e sorpreso, finirai inevitabilmente per annaspare nella stagnazione.
Esattamente quello che accade a questo disco, che sebbene non sia affatto da buttare e mostri più di un episodio degno di nota (“King Of The Rats”, per dire, è un gioiellino in bilico tra elettronica algida e sensualità, e pure la title track è un bel singolo autenticamente rabbioso), farà rapidamente capolino nel novero dei dischi tanto onorevoli quanto archiviabili.
Tom Fleming ha una voce che vale oro a ogni inflessione, riconoscibilissima (può esserci di meglio per un songwriter?), ma da sola non basta, così come il talento. Persi i Wild Beasts, per intraprendere un percorso realmente autarchico avrà bisogno di studio, fortuna e dell’umiltà di un bel po’ di lavoro sulle proprie (nuove) direzioni musicali. Anche i grandi lo fanno
Articolo del
03/10/2019 -
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