Ci sono degli album che sembrano non invecchiare mai. Sembrano eterni e sempre giovani, come se lo scorrere del tempo non riuscisse a scalfirli. Quando ciò accade, nella maggior parte dei casi, significa che quei lavori hanno talmente tanto rasentato la perfezione, la quadratura del cerchio testuale e musicale, che sono riusciti ad essere immuni alla polvere del tempo, regalandosi imperitura linfa vitale.
Sono dischi che spesso hanno qualcosa di rivoluzionario, nei contenuti e nelle sonorità. Sono dischi che non tutti possono fare, decisamente no. Farli spetta ad una manciata di geni visionari, gente che sa perfettamente che accontentare il pubblico non sempre è cosa buona, ma che ciò non vuol dire necessariamente non doverlo accontentare mai. Si può trovare un compromesso.
Ci può essere una via di mezzo fra René Guenon ed il pop, ad esempio. Quarant'anni fa usciva "L'era del cinghiale bianco", che è tutto questo.
Siamo, evidentemente, nel 1979, Franco Battiato è al primo disco con la Emi, e viene da anni di sperimentazione sfrenata, da "Fetus" e "Pollution" fino a "Clic", "Sulle corde di “Aries" o "L'Egitto prima delle sabbie", tutti album da due brani o poco più, lunghissimi e perlopiù strumentali, intrisi dello studio delle onde di Stockhausen, caratteristico delle prime apparizioni dell'artista etneo. Poi, nel '79, insieme all'approdo alla Emi, arriva la svolta artistica di Battiato, con "L'era del cinghiale bianco" a fare da spartiacque.
È, questo, il primo dei lavori più pop di Battiato, quello che farà da apripista ad una serie di album incredibili ("Patriots", "La voce del padrone", "L'arca di Noè", "Fisiognomica", solo per citarne alcuni), nei quali il Maestro di Ionia riuscirà a coniugare sperimentazione musicale e poeticità testuale.
"L'era del cinghiale bianco" si apre con il vorticoso riff di violino bizantineggiante di Giusto Pio nella title track, mescolato alle intromissioni rock di Alberto Radius alla chitarra. La famosa Era del cinghiale bianco è, invece,citando René Guenon, un richiamo alla tradizione mitologica visnù, nella quale il cinghiale (bianco, appunto) è simbolo di saggezza. E l'arrivo di un'era del cinghiale bianco sta a significare l'arrivo di una età di piena conoscenza in senso spirituale.
La seconda traccia, "Magic Shop", comincia con le chitarre di Radius in risalto, montate su un testo marcatamente ironico e dissacrante, che stigmatizza una eccessiva e crescente avanzata della società consumistica ed occidentale, con la sua finta ed ipocrita apertura verso altre culture. La linea di basso che apre ed accompagna "Strade dell'Est" è, probabilmente, una delle migliori mai sentite in Italia, e si sposa perfettamente con l'impianto ritmico di De Piscopo, batterista del disco. Le schitarrate di Radius e le tastiere, che fanno la parte dei fiati, creano il giusto equilibrio fra atmosfere rock e sonorità arabeggianti. Il testo è quasi un atto d'amore di Battiato verso il mondo, magico e nascosto, d'Oriente. "Luna indiana" è un meraviglioso notturno orchestrale, con due pianoforti in primo piano ed una parte vocale appena sussurrata.
"Il Re del mondo" ci riporta a René Guenon, che, rifacendosi alla mitologia dell'Asia centrale, raccontava del sovrano della città sotterranea di Agarthí, regno inaccessibile e sconosciuto agli uomini, nel quale il "Re del mondo" conserva la sua sapienza, dopo essere fuggito dalla barbarie umana. Musicalmente è anche questo un pezzo più strumentale che cantato, gli interventi di Battiato sono brevi e lasciano spazio ad una linea di basso abbastanza ossessiva, nella sua metodicità. Il ritmo del pezzo, abbastanza incalzante, trova le sue variazioni nei fill di batteria fra una strofa e l'altra. Proprio l'incessante ritmica conferisce al pezzo un'atmosfera abbastanza cupa, da Orwell in "1984".
L'atmosfera cupa di cui sopra viene allontanata da "Pasqua etiope" che, su una dolcissima e rilassante base di fiati ed archi che tessono le trame di un'aria religiosa, trova in Battiato e nel suo sincretismo lirico fra greco e latino un perfetto sacerdote.
Battiato aveva già dimostrato di essere artista dal multiforme ingegno, per dirla come Omero. E ne dà conferma nell'ultimo brano dell'album. Le atmosfere orientali, esoteriche e misteriose scompaiono. Si sentono degli archi, poi uno xilofono ed una sezione ritmica fenomenale, completamente smarcata da qualsiasi pattern che ci si potrebbe aspettare. Battiato canta l'amore al tempo della guerra, lo canta come unica speranza di salvezza, ma senza melensaggini di sorta. Lo canta in siciliano, lasciandosi cullare dalle immagini della sua giovinezza, di quando Ionia si chiamava ancora Giarre- Riposto, di quando, ragazzini, si andava a caccia di lucertole.
"L'era del cinghiale bianco", è, in conclusione, un disco seminale nella carriera di Battiato, come si diceva sopra, un vero spartiacque, la giusta chiave di volta fra la sperimentazione dei primi tempi ed una svolta pop. È un disco completo, con venature prog e new wave. Prosegue sulla scia della sperimentazione, con sovraincisioni e pluri incisioni delle tracce di chitarra e voce. È il fil rouge che collega due pezzi di carriera, ennesima perla della discografia di un enorme artista.
Voto: seriamente dovrei dare un voto a Franco Battiato? Io? Suvvia, non scherziamo. Canzone preferita: l'animo più razionale, quello da musicista, mi farebbe dire "Strade dell'Est". Ma per una volta faccio vincere il cuore. Ed il cuore è siciliano, per cui sì… "Stranizza d'Amuri".
Articolo del
21/07/2019 -
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