Musicalmente attivi da oltre una decade nella terra d’Albione, patria del brit pop, dei Queen e del fish and chips, i White Lies ritornano sulle scene internazionali a distanza di oltre due anni da Friends. Il loro quinto album “Five”, da qui la banale ma efficace scelta di nominare così la loro ultima fatica discografica, rappresenta il debutto sotto etichetta PIAS Recordings, motivo in più il terzetto londinese di stupire e stupirsi, affidandosi a Ed Buller (produttore tra l’altro dei Pulp e Suede) in fase di regia musicale.
Dalla considerevole durata di oltre sette minuti, “Time to Give” è la prima delle nove tracce che esplorano morfologie musicali differenti, dalla new wave degli Eighties al post-punk dei tempi moderni. Nei quattrocentoquaranta secondi che caratterizzano la miscela di tastiere vintage e un ritornello tutto da cantare, il lungo finale estremizza la controparte sonora fino a far sembrare il brano una versione alternativa dei Muse 3.0, quelli decadenti degli ultimi anni. Forse sarebbe stato il caso limitarsi ai canonici quattro minuti, piuttosto che snaturare un brano che in quel lasso di tempo aveva ampiamente detto tutto, in maniera oltremodo convincente.
Per fortuna con “Never Alone” il trio formato da Harry McVeigh, Charles Cave e Jack Lawrence-Brown prosegue la sua cavalcata verso un post-punk a loro più familiare. Ma la somiglianza di fondo più acclarata è con i cugini Editors, quelli melò ed energetici degli esordi di The Back Room e An End Has Start, con cui si fecero conoscere prima e apprezzare dal grande pubblico poi.
L’ugola di McVeigh si pone tra quella di Tom Smith dei già citati Editors, con quella leggera sfumatura dark alla Dave Gahan dei Depeche Mode, per quanto lo stesso Harry l’abbia più volte negato con il paragone stilistico con il primo artista. La seconda citazione non è campata in aria invece, la deriva new wave infatti si presenta nella seconda parte del disco, con “Tokyo” e “Jo?”, soprattutto quest’ultima sembra appartenere a un’epoca musicale precedente. Nonostante il tuffo nel passato anni ‘80 il risultato rimane encomiabile, a voler tributare quel periodo con sprazzi di synth<, tastiere e beat che fecero grande l’Inghilterra musicale di un quarantennio fa.
Bisogna aspettare quasi la fine prima di imbattersi in “Believe It”, pezzone potente e martellante che, riproponendo la già collaudata formula del galvanizzante ritornello sparato a tutta intensità, segna l’ultimo sussurro del disco, prima di terminare con la più docile “Fire and Wings”.
Un po’ di moderna marchetta pop c’è, inutile negarlo, ma è un discorso che prima o poi finisce inevitabilmente con “infettare” una buona schiera di solisti e gruppi. Ciò non toglie che nella loro funzione intrattenitiva i White Lies adempiono rigorosamente al loro dovere, e di questo gliene va comunque dato atto.
Per certi versi “Five” è il lavoro più maturo dei cinque pubblicati finora, o perlomeno il più ispirato, letteralmente e figurativamente; non sarà un capolavoro né tantomeno una pietra miliare della musica britannica, però riesce a riscattare un precedente album con poche luci e molte ombre.
Da una parte la sensazione di già sentito in termini sonori è forte, lampante, inattaccabile, ma dal canto loro McVeigh e soci hanno imbastito un considerevole lavoro in fase di scrittura e nell’aver energizzato buona parte del disco, in piena tradizione indie rock. Ma l’amalgama funziona, e anche bene, per cui è una sensazione di paramnesia estremamente piacevole da ascoltare, che anestetizza quanto basta per non porsi domande superflue.
White Lies, il post-punk revival ai tempi della Brexit
Articolo del
06/03/2019 -
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