Alcune realtà non si possono interpretare del tutto ascoltando di sfuggita barlumi d'arte, che sia musicale, o pittorica, o letteraria, vanno indagati come quando si sta cercando un tesoro che si percepisce nascosto nel profondo. Approcciarsi ad un disco come The Golden Dwarf ( ristampato il 26 Ottobre 2018 in 300 copie numerate dalla spin on black in doppio vinile, 180 gr, gatefold ) non è dissimile da quanto appena esposto, ci si immerge in un realtà distorta tanto quanto le chitarre che ne abitano i solchi, in un affascinante cammino di perdizione sonora. In un vasto e dirompente deserto immaginario l'intro sembra essere la voce del demone ritratto nella cover, che viene a prenderci per mano, e lentamente scivola insieme a noi nel primo brano vero e proprio, All Gods Die. In modo subdolo i tratti blues del pezzo si inacidiscono ed arrivano ad implodere su di un timbro vocale che si erge e cerca di emergere dalla distorsione imperante, creando un muro di riff controbilanciato in un finale che incontra la calma apparente di un luogo sicuro.
Ciascun pezzo, anche il più "breve" Blood Red Shrine ( 5:37 di durata ), crea al suo interno un microcosmo fatto di decelerazioni fuse con improvvise impennate, delle chitarre, della batteria, che appare pulsare come sangue sul substrato del theremin e dei sintetizzatori, in un avvicendamento di generi che fa perdere la cognizione del tempo, nel suo protrarsi in un ammaliante e perverso svolgimento di sorprendente freschezza vintage. Death Dog rappresenta in questo senso il paradigma dell'album in cui ogni componente di questo ipnotizzante racconto si esprime nella sua massima forma, 15 minuti di abbandono totale in un vortice stridente in cui il blues più sanguigno incontra l'hard rock ed il post metal, una space opera roboante dove la voce arriva a distorcersi nel continuum spazio temporale, da gustare lasciando i finestrini della navicella spaziale rigorosamente aperti. Impossibile non citare poi la title track in cui sembra di trovarsi immersi in una marcia lugubre di un uomo all'inferno, che lento si sofferma su ogni battito sullo sfondo, e si scorgono dettagli così impensabili di fuggevole bellezza, rapidi cambi di tempo, che portano il tutto a divenire una fuga ed un ritorno continue dal caos quando la velocità del brano sale e scende di continuo, in un connubio che sa di vita vissuta, di emozioni ritrovate.
Non bisogna avere fretta con i Satori Junk, ci si deve abbandonare ad un fruire della musica in modo attento e riflessivo, dove costantemente si viene presi e portati a curiosare su un piccolo frammento nascosto tra le pieghe di lunghe peregrinazioni musicali, oserei dire quasi miracolose in rapporto a ciò che popola i lidi radiofonici del mainstream. Proprio alla fine troviamo poi una cover di Light My Fire dei Doors , band di sicura ispirazione per i Satori e che alberga dall'alto nei confronti di ogni gemma di questo The Golden Dwarf, qui brano rivisitato in chiave oltremodo accattivante, ruvida traccia che trasfigura la canzone in un epilogo graffiante non solo dell'album, ma anche di un modo di far musica non comune e di sicuro interesse verso chiunque voglia esplorare universi sonori d'altra, e forse più alta, natura.
Articolo del
07/11/2018 -
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