L’album “Exile In Guyville” esce nel 1993. L’ha inciso una fanciulla che al college, in Ohio, frequenta musicisti che avrebbero lasciato il segno nella scena indipendente americana, tra cui Chris Brokaw (Codeine, Come), John McEntire (Tortoise) e i membri di Bitch Magnet e Urge Overkill.
Liz Phair bazzica Chicago: va ai concerti nei piccoli club, e nel tempo libero ha registrato canzoni con un quattro piste, nella sua camera da letto. Una delle pochissime copie di quei nastri regalate come demo a conoscenti suscita interesse, e si innescano i meccanismi che possono portare alla realizzazione di un disco per una piccola etichetta.
Chi produce vorrebbe però limare e perfezionare quei suoni e quei bozzetti, e la Phair si rifiuta. Solo successivamente troverà le persone adatte, e la sintonia con esse, necessarie a dare vita all’LP “Exile In Guyville”, che di quelle incisioni rappresenta una sorta di rilettura e compendio. Obiettivo primario: preservare l’impostazione amatoriale e l’immediatezza delle canzoni. Caratteristica peculiare dell’operazione: l’album viene “modellato” su “Exile On Main Street”, doppio epocale dei Rolling Stones che, peraltro, la ragazza neanche conosceva quando aveva cominciato a catturare su nastro i pezzi da lei composti.
“Exile In Guyville” alterna momenti intimisti ad altri in cui sono espressi contenuti talvolta espliciti. Con grande naturalezza l’artista dà voce a sentimenti quali insoddisfazione, sconforto e amarezza, e alla necessità di sentirsi amata; allo stesso tempo, manifesta senza peli sulla lingua anche le proprie pulsioni sessuali, e rovescia i cliché fondati sulla subalternità delle donne nei confronti del “sesso forte”.
Una doppia anima che ritroviamo (leggendo le dichiarazioni dell’artista nel corposo booklet che accompagna la ristampa) nell’atteggiamento un po’ contraddittorio da lei assunto: se da un lato difende la riservatezza dei nastri, che non intende divulgare più di tanto, dall’altro è consapevole del potenziale “pop” delle sue canzoni, e vorrebbe farle conoscere al pubblico più vasto possibile.
Già ristampato, con poche bonus track, in occasione del 15° anniversario dell’uscita nei negozi, il disco viene ripubblicato in una sontuosa versione in 3 cd che include le registrazioni casalinghe da cui ha avuto origine (i nastri “Girly-Sound”). Qualche perplessità l’operazione della Matador Records la desta: ci troviamo davanti proprio a una pietra miliare dell’indie statunitense? Il libretto presenta “Exile In Guyville” esattamente in questi termini, ed è lodevole l’impegno profuso nella riedizione dell’album con un tale apparato di approfondimenti e materiali extra. Rimane però l’impressione che negli ultimi anni, ripubblicazione dopo ripubblicazione, la diffusa tendenza a incensare dischi “del passato” possa far perdere oggettività nella valutazione, o rivalutazione, di un’opera musicale. Certo, all’epoca – un periodo caratterizzato dall’irruenza mascolina del grunge – la Phair riscosse un imprevedibile successo, attirando l’attenzione non solo delle testate specializzate, ma farla passare pressoché per l’unica ragazza fuori dal coro, in grado di affrontare anche temi delicati o tabù, significa fare un torto palese a colleghe come PJ Harvey, il cui LP d’esordio, “Dry”, precedette di un anno “Exile In Guyville”.
In ogni modo, a venticinque anni dall’uscita, l’album si ascolta ancora con piacere. Forse, oggi, più che brani da rockettara quali 6’1”, Never Said, Fuck And Run e Divorce Song, a spiccare sono la miniatura acustica Glory, l’espressività della voce e il gusto con cui la Phair scrive melodie non banali come Dance Of The Seven Veils ed Explain It To Me, gli arpeggi notturni di Gunshy e la narrazione di Stratford-On-Guy, la combinazione di accordi sinuosa e ammaliante di Shatter. Attribuire a questa ventina di canzoni la levatura del classico, con la c maiuscola, è però, come già accennato, un’iniziativa che solleva non pochi dubbi.
Articolo del
14/09/2018 -
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