Motta abbandona i suoni ruvidi del primo disco, potenti e ipnotici, pieni di batteria e voce rabbiosa, per far entrare altri strumenti, altre voci, sfumature più dolci, ritmi tutto tranne che sincopati, e accomodarsi nel salotto dei poeti romantici e maledetti.
Nel suo esordio solista, Motta ci aveva incuriosito non solo per come si era presentato ma anche per la scelta di far produrre il suo disco da Riccardo Sinigallia: ci era sembrato motivo indiscutibile per ascoltare la novità e, imprevedibilmente, al primo ascolto ne seguirono altri, decine in pochi giorni, e la sensazione di avere “fra le mani” uno dei migliori dischi dell’anno, si fece strada sgomitando.
E, di fatto, non fu una valutazione sbagliata. Il tutto fu confermato da una serie di esibizioni live generalmente sold out (e ne abbiamo viste e raccontate diverse) e che diedero il colpo di grazia: La fine dei vent’anni era proprio un discone.
Alla fine dei vent’anni, ovvero finito il tour e finita la festa, ci siamo subito chiesti “come sarà il prossimo disco?” poiché le aspettative erano altissime. Lo stesso Motta si era lasciato sfuggire qua e la che il lavoro fatto per il primo disco era stato tanto ma che erano pronte delle ispirazioni nascenti che potevano fare da base per il disco successivo. Nel giro di poco tempo girava già sui social l’immagine di lui in studio a registrare nuovi pezzi. A distanza di un anno dalla chiusura del lungo tour dei vent’anni, il nuovo disco ha già compiuto un mese. Un tempo quasi record.
All’annuncio dell’uscita del singolo e del video Ed è quasi come essere felice, si scalpitava un po’ nell’attesa. L’impatto è stato glaciale: le immagini iniziali in esterna illudono su un nuovo corso che invece non si percepisce dal sound non appena la scena torna in studio, su un palco buio e vuoto, dove inizia un mantra che riallaccia la cintura col disco precedente. Mantra che si ripeterà, come stile, anche in altre canzoni del disco. E fin qui, nulla di nuovo. Nel successivo singolo e video, La nostra ultima canzone, di nuovo molta enfasi e molta attenzione alla scenografia e al contesto (per il video), ma la canzoncina resta semplice con il già sperimentato finale troncato sull’eco.
Proseguendo l’ascolto del disco ci ritroviamo molte immagini e molti suoni che abbiamo già conosciuto. Forse un po’ troppo simili, in alcuni casi sembra di ascoltare un’appendice de La Fine dei Vent’anni. Ma al tempo stesso scopriamo degli aspetti nuovi, più morbidi. Alcuni brani prendono la via melodica, l’approccio più cantautoriale (ma di scuola recente, adeguato ad un pubblico giovane e meno impegnato). Chissà dove sarai, ad esempio, si avvia come un mix fra Del tempo che passa la felicità e Sei bella davvero ma non ha lo stesso impatto, di nessuna delle due.
La stessa Vivere o Morire, che da il titolo all’album, ha un bel testo peccato per la melodica poco originale. Mentre Quello che siamo diventati ha qualcosa di più, e sembra farsi notare rispetto alla media come qualcosa di “diverso”, che taglia un po’ il cordone ombelicale col precedente.
L’impressione è che il disco d’esordio sia servito a fare il botto, per così dire, e sfogare tutti gli istinti primari (musicali) di questo talentuoso trentenne, ma il secondo disco, come dice Caparezza, è sempre il più difficile, ed è forse anche quello che rimette sui binari, inquadra la strada e in qualche modo ridimensione un po’ tutto. Il passaggio dalla Woodworm alla Sugar non è di secondaria importanza, e nemmeno l’assenza della mano di Riccardo Sinigallia passa inosservata. Le aspettative erano alte: le cose sono due, o erano sbagliate o sono state disattese.
Forse non avevamo messo in conto un’evoluzione in altra forma di Motta, o forse è più semplicemente il ridimensionamento a cui facevamo riferimento prima. Non è un disco da buttare, ma al momento si attesta sulla sufficienza
Articolo del
15/05/2018 -
©2002 - 2024 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|