Dimenticate tutto, o quasi, quello che sape(va)te di Jonathan Wilson perchè il nostro, dopo essere entrato nelle grazie di Roger Waters come chitarrista e curatore dei suoni, ha smontato le vecchie strutture seventies buttandosi a capofitto sul decennio successivo.
Il cantante/cantautore/pluristrumentista e produttore di Los Angeles torna con il suo terzo album solista, intitolato Rare Birds, in uscita il 2 marzo su Bella Union. Per l’occasione Jonathan si è fregiato della collaborazione di Father John Misty, Lucius, Lana del Rey e New AgeLaraaji.
Sebbene i testi siano indissolubilmente legati a una relazione fallita, Rare Birds non è un concept album ma una sorta di riflessione da cui consegue la giusta cura per il dolore da distacco emozionale. Il sound invece è un ibrido figlio di una fusione fra sintetico e acustico, fra analogico e digitale con tanto di sintetizzatori e drum machine.
Ispirato, dice lui, più dai Talk Talk che da Neil Young & Tom Petty, Wilson ha creato un album molto vario (disomogeneo diranno i suoi detrattori), fortemente influenzato dagli anni ’80. Registrato nello stesso periodo in cui era in studio con Roger Waters, per lavorare a Is This The Life We Really Want?, il timido performer si è perso in un labirinto sonoro proteiforme.
Rare Birds è stato prodotto dallo stesso chitarrista con il tecnico Dave Ceminara, nel Five Star Studioszavorra che hanno costellato il precedente lavoro per tirare fuori qualcosa di più personale ma non originale sia ben chiaro, dall’orientamento pop e, azzardiamo, anche radio-friendly. Chitarre acustiche orientaleggianti che suonano come sitar, basso miocardico pulsante, effetti elettronici e quella voce vicina al Tom Petty più svogliato (Trafalgar Square).
In Me, le dissonanze del sax fuse a melodie psicotrope si corteggiano in questa traccia melanconica e sognante che cede il posto alla più ovattata Over The Midnight, una roba pop dance di cui onestamente non se ne sentiva nessun bisogno.
Poco dopo però, questo folletto dalla dizione incespicante se ne esce con la linea armonica di There’s A Light che mieterà più vittime dell’Ebola in Africa. Una ballad killer di ben altro livello, fatta di coretti appiccicosi come melassa e giri melodici scappa classifica. Jonathan sale in cattedra, come un detentore sicuro del giusto mix vincente. Sunset Blvd, come spesso succede nella sua musica, vira nel chorus verso scale discendenti lasciando affiorare una sorta di malinconia di fondo che circonda le opere di Wilson. Miriam Montague strizza l’occhiolino ai Beatles con tanto di orchestrazioni imperniate su archi e melodie sghembe.
Loving You è una traccia indefinibile, nell’economia del disco risulta quasi senza peso, in realtà ne muta l’equilibrio in peggio e onestamente non se ne comprende l’utilità. Molto meglio fa Living With Myself in cui il canto è forgiato sull’ugola dell’ultimo Robert Plant da cui prende in prestito timbrica e approccio. Altrettanto buona è la lunga Hard To Get Over, sferzata da suoni elettronici, piano martellante e rallentamenti (in)trip(panti) seguita a ruota Hi Ho To Righteous, una ballad country imbevuta di una soluzione psichedelica capace di trasfigurarne i tratti.
Il problema con Jonathan, come sempre, sta nella sua immensa bravura tecnica, nel gusto raffinato per i suoni, nella conoscenza dei segreti della produzione e nella sua quasi sconfinata cultura musicale che purtroppo ne limita la scrittura riducendola a una sorta di continuo omaggio a diversi grandi del passato, castrando la sua vera personalità soffocata dal peso di questo continuo rimbalzo fra citazioni importanti.
Per dirla con Maynard dei Tool: “A million lights reflection pass over him”
Articolo del
15/03/2018 -
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