Rewind è l’ultimo lavoro dell’enigmatico duo Soccer96, formato dal tastierista “Danalogue the Conqueror” (Dan Leavers) e dal batterista “Betamax killer” (Max Hallett). Anche conosciuti come i due terzi di The Comet is Coming, progetto londinese di rock psichedelico, elettronica e punk rock. Rewind segue il loro precedente acclamatissimo album, As above so below.
Rewind è un disco surreale, sin dalle prime note. Enter the field si apre come la sigla dei Predatori del tempo (ricordate Super Tre?) e si fa carica di un’elettronica cosmica e interspaziale. Harmonious monk ha un ritmo più taciturno, più silenzioso, ma l’incedere di batteria e di synth rendono il tutto accattivante, cadenzato e potente nella sua lentezza.
Alice è il fulcro dell’album. Si apre piano, dolcemente, quasi non avesse nulla da dire, ma poi eccolo lì, un suono acido e metallico che si interrompe subito per tornare al silenzio, silenzio interrotto nuovamente dal richiamo di un sound da discoteca elettronica. Batteria e synth la fanno da padroni in questo pezzo carico di electro-rock dimesso ma puro, autentico, misterioso fin nelle membra. The scribe sa di jazz marcio, degradato, da locale di terz’ordine in uno dei ghetti di Sin City.
Riprendiamo a respirare una purezza elettronica con Time Flows, pezzo accompagnato dalla voce di Fred Stidson. È un’elettronica genuina, arricchita dal carattere trip hop della voce di Stidson. Wake è ripetitiva ma non per questo noiosa, al contrario sfiora una techno ben costruita e ritmicamente perfetta. The Hermit’s Lantern ha un sapore di scena madre di Matrix, mentre The future, arrangiata da Fred Stidson ha qualcosa di orientale, a cominciare dai campanellini tipici dei negozi cinesi e dai toni che riconducono alle location asiatiche del film Codice 46 (da vedere assolutamente).
Crush è una festa danzereccia stile Ibiza, mentre I Dreamt about you riprende i ritmi tribali indigeni e sembra di ballare attorno al fuoco, circondato di capanne di paglia. Constellation chiude il cerchio e lo chiude bene. Ritmi afroamericani e melodie tribali fanno di questa chiusura un esercizio elettronico senza via di scampo, tra synth impazziti e canti primitivi. L’intero album è un’attrazione ancestrale verso un’elettronica che non si fa mancare nulla, dal trip hop al tribale, dalla techno all’interspaziale, passando per ritmiche soft e poi più aggressive e mutanti. Indubbiamente, da sentire
Articolo del
17/03/2018 -
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