“Everything was beautiful, and nothing hurt” (il titolo è tratto da una frase dello scrittore Kurt Vonnegut nel romanzo “Mattatoio n. 5”) è il quindicesimo album di Moby. Il "piccolo genio" torna e il protagonista del nuovo lavoro è ancora una volta il suo flusso di coscienza, incontenibile, inarrestabile. Il penultimo episodio "More Fast Songs About the Apocalypse" era un grido che preannunciava l'apocalisse, apertamente contro l'America di Trump.
Questa volta, l'introspezione la fa da padrona e temi molto personali fanno capolino, accanto ad un poco velato misticismo. "La perfezione non esiste nella vita reale e non può esistere neanche nella musica". È il Moby pensiero che si è scrollato da tempo di dosso i panni della star che cerca nella musica l'autoaffermazione per vestire quelli del compositore. Alcuni brani presentano linee di basso interrotte o voci non masterizzate, ritmi imperfetti. Altri brani invece, riverberi, echi e accenti gospel, quasi fossero registrati dal vivo in una chiesa. Al netto della psicoanalisi spicciola che un album come questo può facilmente indurre a causa di titoli e testi profondi e riflessivi; ad un ascolto attento, non possiamo non cogliere come l'essenza della produzione di Moby stia, in realtà, nella costruzione musicale. Un ibrido trip-hop permeato da una camaleontica vena compositiva.
Il primo singolo "Like a Motherless Child" (uscito a dicembre) è stato un potente apripista. Dentro c'è tutto Moby, il suo innato senso ritmico, i fraseggi mai banali, ostinati, sempre in evoluzione. Cupo e inarrivabile.
È il brano più radiofriendly dell'album, una concessione seppure parziale ai puristi delle hit. La chiusura, con assolo di organo, suggerisce la ricerca di ben altre sperimentazioni nella tracklist. Il secondo singolo "Mere Anarchy" si apre con archi e tetre pulsazioni digitali.
Il cantato, quasi sussurrato, lascia le architetture sonore in primo piano. Un altalenante crescendo fatto di pieni e vuoti, bassi pulsanti e archi cangianti. L'ascoltatore è al centro di questo impetuoso vortice. In "The Waste of Suns" le ritmiche sincopate, cullano echi lontani che compongono un ritornello infinito, uno dei pochi bagliori di luce dell'album. "The Ceremony of Innocence" si apre con arpeggi al pianoforte e voce, poi tamburo e maracas e infine esplosione di archi. Questi ultimi "cantano" e sono la vera voce dell'autore.
Tra i momenti migliori dell'album "The Tired and the Hurt". La ballata elettronica ritrova qui una dimensione nuova, malinconica e contrastante. Tra voci distorte e cupe melodie ad un certo punto una accelerazione ritmica illumina il pezzo. Bello ed imperfetto... C'è spazio anche per "Welcome to Hard Times", una sorta di bossanova contaminata dal trip-hop. Accenti gospel ed un ritornello (il titolo) che entra nella testa grazie all'etera voce della cantante.
Moby è capace di spaziare agevolmente tra i diversi generi e la sua maniacale cura del sound mescola un mood anni '70 con piano e chitarre acustiche ("Falling Rain and Light"). Così anche in "The Sorrow Tree", in cui, riverbero e synth caratterizzano un pezzo che sa di estate, sofisticato e sognante. "The Last of Goodbyes", insieme alla triade dark, "The Middle Is Gone", "This Wild Darkness", "A Dark Cloud Is Coming", presenta ancora un cantato gospel accompagnato da sonorità quasi etniche. Echi di fantasmi riecheggiano su un arrangiamento orchestrale a tratti folk ("This Wild Darkness") a tratti sinfonico ("The Last of Goodbyes”).
Le capriole musicali di Moby finiscono qui, per questa volta.
Si finisce per pensare di aver ascoltato la colonna sonora di un gran bel film, una di quelle pellicole capaci di smuovere anche gli animi più aridi. È la magia di un'artista unico nel suo genere. Un compositore alchimista, merce rara nel plasticoso regno delle hits a breve scadenza. Un album coerente, a tratti ostico per la ripetitività dei temi, prepotentemente "dark". Nulla di sconvolgente, ma tutto sapientemente dosato e indubbiamente ispirato. Moby pesca a piene mani nella genesi del trip-hop mainstream anni '90, ma lascia venire a galla contaminazioni di ogni genere. Un delicato equilibrio, invisibile agli occhi, ma visibilmente efficace
Articolo del
02/03/2018 -
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