Non che sia strettamente necessaria, perché ovviamente confidiamo nella cultura musicale dei nostri lettori, ma una panoramica su cosa hanno rappresentato i Quicksand e in che periodo si sono mossi servirà quantomeno a delimitare il loro raggio d’azione fornendo qualche info a chi non è ancora affondato nelle sabbie mobili.
Nel 1990, a New York, il post hardcore è quasi pronto a scoppiare per comandarsela alla grande, forte di una furia sinora inaudita e incanalata verso il Pacific Northwest. Quello del post hardcore è un linguaggio misto, un movimento in divenire, qualcosa di scomodo e molto dirompente.
Fra i responsabili di questo suono troviamo proprio i Quicksand, messi in piedi da già con i Gorilla Biscuits. Il singer gravita nella scena newyorchese, quella dei presunti loser, conoscendo così altri animali pronti a far deflagrare la propria rabbia attraverso riff letali e liriche affilate di Split (1993) e Manic Compression(1995).
I nostri s’impongono come band cardine, ma è giusto un lampo perché si dissolve fra liti, incomprensioni e l’alquanto discutibile (e fallita) reunion del 2000.
Schreifels fonda i Rival Schools ma torna nei vecchi gorilla mentre il bassista Vega si unirà successivamente ai Deftones. In questo 2017, dopo varie smentite e rumour nella migliore tradizione del marketing più scontato ma ancora efficace e funzionale, ecco l’uscita del singolo che anticipa Interiors, primo album dopo 22 anni d’inattività.
L’iniziale Illuminant riduce, per quanto può ovviamente, il gap che li ha tenuti fuori dal giro approfittando di un sound pulito, secco e deciso. Sì, ovviamente si sente l’erosione apportata dall’incedere inarrestabile del tempo. Rimettere la macchina in funzione comporta l’alzata di un gran polverone espulso dal movimento cinetico degli ingranaggi leggermente arrugginiti. Il sound è fuori tempo massimo, zoppicante perchè mutilato dell’urgenza comunicativa che del post hardcore era spinta instancabile, necessaria per far funzionare il tutto.
Oggi i Quicksand sono maturi professionisti che si guardano allo specchio. I suoni (Will Yip), a differenza del passato, sono incastonati in una cornice folgorante, posti accuratamente per lasciarsi osservare attraverso la teca di cui un tempo avrebbero, con molta più ostilità, infranto il vetro (Under The Screw).
Di conseguenza anche il canto è più pacato nei modi, stabile e senza forzature. Sembra che la band si osservi da lontano per capire cosa, e se, abbia maturato di buono in queste due decadi. Sia chiaro, sono ancora capaci di produrre nuovi schiaffi sonori che, in alcuni passaggi della chitarra risuonano, quasi pentatonici ovviamente al netto di feedback, svisate caustiche e basso propulsore. Gironzolano anche attorno a melodie emo (Comonauts) passando per neologie h.c. rintracciabili in Fire This Time e continuando su imprendibili loop incastonati in >>.
Interiors è buono per metà, imprigionato dentro una teca il cui vetro laminato, spesso 22 centimetri, impedisce alle deflagrazioni di fare gli stessi danni dettati dall’iniziale urgenza che ne segnò la nascita e la cui assenza, ora, ne decreta la chiusura del cerchio
Articolo del
30/11/2017 -
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