Dopo due decenni dall’ultimo Pygmalion(1995), tornano gli Slowdive con un nuovo disco selftitled.
Chi lo avrebbe mai detto? Fossimo stati nel primo decennio del nuovo millennio in pochi ci avrebbero scommesso, o forse non lo avrebbe fatto nessuno. Oggi, dopo le varie reunion dai Ride ai My Bloody Valentine passando per molti altri, anche loro hanno sentito la necessità, o voglia, di ritornare sui propri passi con un nuovo capitolo.
Considerando l’andamento del mercato, impegnato in una serie di attività inerenti al passato con riposizioni di live storici, rieditati e ispessiti da nuovo materiale inedito, reunion di dinosauri fatte passare per imperdibili, e ristampe costosissime di qualunque cosa, non si può negare che la loro sia un’ottima operazione di rientro che gli frutterà qualche soldo, nuovi fan e anche il rispetto dei vecchi perché Selftitled è un buon lavoro, non eccelso efficace.
Non vi aspettate grossi scossoni nel songwriting, né dal punto di vista emotivo. Gli Slowdive ripartono, lì dove si erano interrotti, con la tranquillità che da sempre contraddistingue la loro musica che in alcuni passaggi sembra inafferrabile, melanconica quanto basta per abbassare anche le temperature di questi giorni afosi (Failing Ashes).
C’era bisogno di uno stacco, anche se poi è diventato un lungo e importante esilio auto inflitto. Ma anche il tempo è una costante relativa se ci sono di mezzo loro.
Lo shoegaze fluttuante e ipnotico, quelle poche note sospese in bilico fra il crollo emozionale e il sound asettico, sono un marchio di fabbrica ormai ben noto agli addetti ai lavori.
Possono sembrare cinematici, e di fatto lo sono, ma anche sfuggenti per poi trasformarsi in una presenza concreta con qualche scintillio che carica l’aria con scariche elettrostatiche (Go Get It). Al netto di passaggi meno riusciti, che si avvitano un po’ troppo (No Longer Making Time), ne spuntano altri costruiti con maggior grazia e rintracciabili in Star Roving (il singolo) e Sugar For The Pill.
Se poi avreste bisogno di un’ulteriore spinta per ascoltarlo, il voto è sette +, dove il + non è altro che un incoraggiamento che faccia impegnare la band per un songwriting più originale di quello presentato qui. Insomma, non tutti i quarantacinque minuti scorrono via veloci e senza intoppi, ma dopo ventidue anni cos’altro vi potevate aspettare? I tempi dei capolavori, non solo per loro, sono ormai finiti da un pezzo
Articolo del
20/06/2017 -
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